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La follia di Peschiera e l’inutilità delle soluzioni di corto respiro 
di Ninni Raimondi
 
La follia di Peschiera e l’inutilità delle soluzioni di corto respiro 
 
Il commentificio indignato sui fatti di Peschiera, a base di «pene esemplari», «servono più controlli» etc, ha già portato a casa un risultato: perdere di vista il focus, buttarla in caciara, smarrire il senso delle cose. Le ragazzine che hanno vissuto un pomeriggio di terrore in balia di un’orda bestiale meritano ovviamente tutta la nostra solidarietà e il nostro sostegno, ma l’idea che quella giornata di follia possa essere archiviata semplicemente trovando (come?) i 10 o i 20 teppisti che nel vagone hanno allungato le mani sui corpi di quelle giovani e infliggendo loro una pena che, per forza di cose, sarà meno draconiana di quanto non vogliano gli arrabbiati dei social, è francamente risibile. La speranza è che i molestatori vengano trovati, ovviamente, ma non è questo il punto saliente. 
 
Per i fatti di Peschiera solo soluzioni di cortissimo respiro  
Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha lanciato l’idea della «notte in carcere», chiedendo «più repressione» e rilanciando il mito delle «chiavi di casa appese fuori dalla porta». Le autorità locali hanno chiesto più controlli alle stazioni di partenza e di arrivo, specifiche ordinanze sugli alcolici, etc. Tutte misure che possono funzionare nel breve periodo, ma che hanno il respiro cortissimo: si vuole davvero militarizzare la riva del Garda a tempo indefinito? Un raduno con quei numeri non si previene con qualche volante in più, tant’è che è dovuta intervenire la celere, comunque fra lo scherno e le risate delle maggior parte dei convenuti. Ma anche ammesso che sia possibile blindare Peschiera: davvero crediamo che simili eventi rispondano a un genius loci specifico e non siano replicabili domani in qualsiasi altra città italiana? 
 
L’importazione del modello banlieue 
La verità è che non si capisce nulla dei fatti di Peschiera se non li si interpreta per quello che sono: l’apparizione lampante, eclatante, evenemenziale di un fenomeno sociale diffuso e radicato, che potremmo chiamare l’importazione del modello banlieue in Italia. Il fatto che nel branco ci fosse anche qualche ragazzo italiano non deve ingannare: l’integrazione, checché ne pensino i suoi angelici teorici, avviene sulla base di rapporti di forza. In certi contesti in cui il tessuto sociale è già slabbrato, a fare da polo di attrazione, da canone comportamentale, da forza legittimante è il modello tribale e sottoculturale più brutale, più barbaro, più vistoso. Al posto del sogno idilliaco dei «nuovi italiani», nelle periferie nascono semmai italiani che si pensano come «nuovi magrebini». Si tratta comunque di una fase intermedia, così come, a metà degli anni Novanta, Mathieu Kassovitz poteva ancora mettere ne L’odio ebrei e nordafricani che fraternizzavano nelle periferie parigine, cosa oggi impensabile. 
 
Responsabilità chiare 
Ma il macrocontesto è chiaro: lo testimoniano le didascalie sui social («l’Africa a Peschiera»), le bandiere degli stati nordafricani sventolate in mezzo alla folla etc. Come si è arrivati sin qui? La spiegazione complottista non regge, ma neanche quella troppo «strutturalista»: nessuno lo ha deciso a tavolino, ma responsabilità politiche e culturali esistono e sono chiarissime. Del resto in Italia l’accelerazione è stata improvvisa e molto ben identificabile: è a partire dal 2011, con le primavere arabe, che i flussi si sono moltiplicati e concentrati su un’immigrazione ben specifica: quella dei giovani e giovanissimi maschi nordafricani. A chi lanciava l’allarme, è stato risposto con una pletora di spiegazioni saccenti e insulse: «geneticamente siamo tutti africani», «anche Enea era un profugo», «aprire le porte agli immigrati è aprire le porte a Cristo», «il razzismo si cura viaggiando» e altre amenità. Chiediamolo ai passeggeri del regionale Peschiera del Garda – Milano, se viaggiando sono guariti dal razzismo… 
 
Ridurre la massa critica 
Ora, come se ne esce? Intanto ammettendo e riconoscendo il problema. La repressione, il controllo, il monitoraggio sono certamente necessari (la calata dell’orda su Peschiera era stata annunciata sui social, davvero non si poteva prevenire?). Ci sono poi una serie di iniziative a raggio più ampio, di tipo sociale, educativo etc, per bonificare i contesti culturali in cui fermentano tali fenomeni. Ma tutto questo è e sarà sempre inutile finché non si riduce la massa critica: bisogna fermare i flussi, rimpatriare i clandestini e cambiare le leggi, a cominciare da quella che blinda qui i «minori non accompagnati» e che tratta un diciassettenne tunisino venuto qui a vivere di espedienti alla stregua di un orfano in fasce scampato alla guerra. 
 
E poi, certamente, va pacificata l’Africa. Vasto programma? Certamente, ma molto più fattibile di quanto si pensi, se solo ci fosse la volontà. Gli Stati che hanno deciso di chiudere le frontiere sono già al riparo da certe derive. Le rotte dell’immigrazione vengono già chiuse e riaperte sulla base di specifiche volontà politiche. Le tratte sul continente africano sono già a intensità variabile a seconda degli interventi esterni stabilizzatori o destabilizzatori. Alcune (rare) periferie degradate sono già state riqualificate con progetti lungimiranti. Peschiera non è la prefigurazione di un destino già scritto, intervenire si può. Ma lo si vuole? 
 
7 Giugno  2022