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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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La crisi della democrazia nei partiti 
di Ninni Raimondi
 
La vera questione?  
La crisi della democrazia nei partiti 
 
Serve una legge che regoli la trasparenza e la democraticità interna dei partiti, attuando l’articolo 49 della Costituzione. Oppure bisognerà arrendersi e dare ragione al mitico, immenso Altan: «Proporzionale con sbarramento al 70%, così imparate». 
Trent’anni fa le inchieste di Mani pulite provocarono il crollo del sistema corrotto e degenerativo dei partiti della Prima Repubblica, trent’anni dopo Mario Draghi al governo da un anno e la rielezione di Sergio Mattarella svelano la crisi democratica degli attuali partiti e il loro distacco sempre più evidente dai cittadini. Ancora ieri il premier ha messo in scena il cortocircuito del governo dell’ammucchiata, scontrandosi con i capidelegazione dei partiti: «Il governo è nato per fare le cose, è stato voluto dal presidente Mattarella con questo obiettivo. Così non si può andare avanti» ha detto dopo i quattro ko della maggioranza sul Milleproroghe. 
 
Il governo Draghi s’insediava un anno fa e in pochi allora avrebbero considerato democraticamente sana la rielezione di un capo dello Stato, il Mattarella bis. La retorica del governo dei cosiddetti “migliori” e la stabilità invocata intorno a due figure di moralità indubbia e di alto profilo quali Mattarella e Draghi, nascondono in realtà anche malamente l’incapacità (la non volontà?) del sistema politico e del malridotto establishment italiano di far vivere di vita propria la democrazia, di rigenerare-rinnovare-ricostituire i canali di comunicazione e partecipazione tra istituzioni e cittadini. La politica che sottrae il diritto di scelta agli elettori e partorisce parlamenti senza maggioranze, la classe dirigente che ignora volutamente che la stabilità finalizzata a non cambiare nulla e a mantenere privilegi per pochi non è altro che oppressione. 
 
Sono proprio le parole “stabilità” e “crescita” il mantra di questi anni, senza pronunciare e considerare mai la parola “redistribuzione”. Lo ribadisce il premier nella prima conferenza stampa del dopo-Quirinale: «L’importante è mantenere la crescita, la crescita ci permette di affrontare l’elevato rapporto debito/pil e di affrontare con tranquillità la fiducia dei mercati». Gli fa eco il ministro dell’economia Franco: «Crescere, crescere, crescere».  
 
Si accorda sulla stessa tonalità il capo della Confindustria Bonomi che parla di «riformismo competitivo». Giustissimo.  
Ma a cosa servono crescita e rimbalzo economico se l’inflazione e il caro energetico si mangiano il potere d’acquisto degli stipendi?  
Chi parla e si occupa di politiche redistributive, di riforme oltre che competitive anche socialmente eque? Chi fa sua la frase «le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita, sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita. (Sergio Mattarella, tratto dal discorso d’insediamento)? 
 
È questo il limite dei “migliori” calati dall’alto, del tecnicismo attento ai macro-fenomeni ma lontano dalla vita reale delle persone, del liberismo che contrasta con l’attuazione della Carta costituzionale, che dovrebbe essere il vero programma di compimento repubblicano. Il solo balzo del pil non è sufficiente per migliorare la vita delle persone, questa “assenza” di attenzione e sensibilità politica si riflette in tutti i provvedimenti che il governo ha assunto nel suo primo anno. Vale la pena di ricordare che l’Italia è l’unico Paese in Europa in cui negli ultimi trent’anni i salari sono diminuiti e che su 540 mila posti creati nel 2021 434 mila sono a termine (dati Istat). 
 
Non è in discussione la vasta conoscenza di Draghi dei fenomeni macroeconomici, basterebbe ascoltarlo in conferenza stampa se qualcuno avesse ancora dei dubbi, ma il suo “profilo liberista” che gl’impedisce di vedere problematiche ed esigenze di una società allo stremo (o di distinguere le truffe collegate al superbonus per l’edilizia, confondendolo con gli altri bonus del settore, i cui provvedimenti andrebbero sicuramente calibrati e soggetti a migliori controlli ma di cui un Paese che necessita di più riqualificazione e meno cemento ha disperato bisogno). 
La narrazione dei “migliori” mostra i suoi limiti soprattutto sull’inflazione e sul caro energetico che nel post pandemia sono diventati una sorta di patrimoniale, sui ceti medio-bassi però. Una specie di pandemia salariale, così l’ha definita Maurizio Landini. Il governo, infatti, non ha nessuna intenzione di tassare gli extra profitti delle compagnie energetiche. 
Cartina al tornasole ne è il modo con cui il governo sta affrontando il caro-energia, con sostegni sotto forma di contributi di pochi spiccioli per le famiglie che avranno aumenti in bolletta superiori al 100%. Né Draghi né il Ministero della Finzione ecologica prendono in considerazione l’idea di intervenire sui superprofitti delle aziende, mettendo parte degli utili delle società energetiche in un fondo per la riduzione delle bollette. 
 
Facciamo un po’ di conti, a proposito di redistribuzione: le principali compagnie energetiche italiane nel 2021 hanno realizzato utili per oltre 10 miliardi di euro.  
 
Di queste, le principali sono a partecipazione pubblica maggioritaria: intervenire sulle direzioni aziendali per fare in modo che rinuncino a una parte dei dividendi in favore di un fondo per l’emergenza bollette e per contenere l’impatto sociale dell’aumento dei prezzi sarebbe un piccolo segno di equità sociale.  
Oppure costringerle a investire sulle rinnovabili, questa sì sarebbe un’innovazione. Concentrarsi invece solo su un programma di aumento di estrazione del gas, come farà il governo, non comporterà alcun effetto immediato. 
Tutto questo fa pensare che il governo tecnico, di unità nazionale e della “non politica” (nessuna scelta, nessuna redistribuzione, uscire dalla pandemia senza cambiare paradigma) sia nato proprio a questo scopo: lasciare tutto così com’è, favorire i rapporti privilegiati con le lobby e gestire i processi macroeconomici con le istituzioni extranazionali. 
 
Mettendo a nudo tutta la fragilità della democrazia italiana, che si declina in variegati aspetti della vita politica e sociale.  
Un Paese senza dignità (la parola più pronunciata dal presidente Mattarella nel discorso d’insediamento) e senza vergogna, in cui gli studenti muoiono durante falsi stage: li chiamano “tirocini formativi” ma ammazzano giovani vite semplicemente mentre queste vengono sfruttate. Un Paese che non si stupisce per lo sciopero proclamato dai medici, celebrati come eroi a inizio pandemia dalla retorica nazionale, e per i sostegni negati dal Senato ai familiari dei medici deceduti. Un Paese che non si scandalizza per la circolazione di dossier infamanti che si rivelano falsi, costruiti ad arte contro un giornalista (ci riferiamo al conduttore di Report Sigfrido Ranucci, oggetto dell’attenzione e delle interrogazioni di alcuni parlamentari con il solo scopo di sospenderlo o zittirlo). Un Paese in cui un senatore della Repubblica, accusato di prendere soldi con la sua fondazione per fare politica e controllare il Pd, denuncia i magistrati che lo stanno indagando (Renzi erede di Silvio B. nelle Bananas). 
 
Questioni diverse che avrebbero bisogno di un sano conflitto democratico, di idee e visioni che si confrontano, di partiti politici con programmi chiari. Il governo Draghi ha invece sospeso e congelato una democrazia già in crisi. Le “non destre” Pd-M5s-LeU non hanno nemmeno la parvenza di una piattaforma progressista, né prese singolarmente figuriamoci insieme. In Italia servirebbe una forza progressista che si batta per il salario minimo, per una legge sulla rappresentanza contro i contratti pirata, per una riforma del lavoro che combatta la precarietà, per un fisco più progressivo, per uno Stato innovatore che non deleghi tutto al privato ma ritorni protagonista anzitutto con servizi pubblici migliori e gratuiti, scuola-sanità-trasporti-acqua. 
 
Il seguito del “romanzo Quirinale” ha destabilizzato leader e forze politiche, creando lacerazioni e conflitti interni e, come sempre accade, ridisegna il quadro politico. Per inciso, è stato detto e scritto di un Mattarella bis inevitabile. Non è vero. Sul nome di Elisabetta Belloni c’era un principio di accordo tra Pd, M5s, Lega e Fratelli d’Italia, cioè i quattro gruppi parlamentari più grandi (escluso il fagocitante gruppo Misto). Se non bastano i maggiori quattro partiti a fare un capo dello Stato, non si vede come si possa eleggere un presidente della Repubblica. L’accordo è saltato per la rivolta nella notte di alcuni capicorrente e perché Letta e Conte (più Letta che Conte) avrebbero avuto una sfilza di franchi tiratori ad azzopparli. 
 
La controprova del non-controllo dei gruppi è che la rielezione di Mattarella è cresciuta in Parlamento spinta dal primo giorno da truppe di grillini e democratici senza indicazioni dei capi di partito. Si è anche detto di un Enrico Letta “vincitore” della partita Quirinale, solo per essersi esposto poco o niente. Non si dice che il segretario dem non può assumere nessuna decisione, condizionato com’è dall’area Franceschini (che era anti-Draghi), dall’area Guerini (che era pro-Draghi), nonché dai portavoce renziani nel partito. Letta, tra l’altro, continua a vagheggiare di un indeterminato “campo largo”, che nelle sue intenzioni andrebbe esteso a Renzi-Forza Italia, dicendo per sempre addio in questo modo alla questione morale e al tentativo del povero Zingaretti di creare un asse progressista e confermandosi partito-sistema che si allea con tutti pur di stare al potere. 
 
Il M5s, al di là della sospensione dello statuto, ha il problema di Giuseppe Conte leader che ormai è impopolare tra gli iscritti, con la sua spocchia e ricerca di telecamere, e quindi inascoltato e destinato ad affondare per buona pace di tutti. 
I quali (per fortuna non tutti) hanno a cuore solo la regola del tetto dei due mandati, la prosecuzione della loro carriera politica o, per dirla con le parole del poeta, «una politica che è solo far carriera».  
E qua si è mosso l'arrivista Di Maio che vede "Il futuro", del suo nuovo gruppo politico, senza futuro. 
Non è una questione di poco conto per un movimento decidere se allontanarsi da Draghi o allinearsi. 
 
Dall’altra parte, la Lega è a un bivio: lasciare la Meloni alla destra e al suo destino, federarsi con i brandelli di Forza Italia, magari entrare nel Ppe, diventare europeista, governista e investire su Draghi. È quello che chiedono i governatori, che vuole Giorgetti. Ma Salvini non sarà mai adatto a un ruolo del genere e soffre da morire per i consensi che sta perdendo a favore di Fdi che cresce sempre di più. 
Interessante sarà anche capire che ne sarà del “partito di Draghi” dopo la non-elezione al Colle dello stesso e la sua ferma smentita in merito a un ventilato ruolo da federatore di un cartello elettorale di centro («Lo escludo, chiuso. Chiaro?»). Che Draghi faccia il capo di una coalizione è da escludere, non lo è invece che l’alleanza trasversale nei partiti Di Maio-Guerini-Giorgetti punti al presidente del Consiglio anche per il dopo voto e scommetta sul fatto che col proporzionale, a cui guardano tutte le forze politiche, dalle urne non verrà fuori nessun vincitore in grado di governare e che l’establishment italiano si senta garantito da Draghi anche dopo il 2023. In quel campo si muovono anche Casini, Mastella, Renzi, Toti e i loro finanziatori. 
 
La parola della nuova fase politica è “proporzionale”: eliminare le coalizioni che con il voto quirinalizio sono implose e lasciare questi partiti, senza vita democratica e divisi oltremodo al loro interno, con la certezza che nessuno di loro con qualunque legge elettorale potrà governare da solo e che in questo modo si tornerà a governi di unità nazionale o tecnici, con i partiti utili solo a spartirsi i ministeri. 
 
Il punto infatti non è il sistema elettorale, proporzionale o maggioritario che sia, anche se l’attuale legge non restituisce ai cittadini nemmeno il potere di scelta dei propri rappresentanti, nominati dall’alto dai capi politici. La vera questione è la crisi della democrazia nei partiti. Nei 5 stelle, Conte ha il pregio di essere stato votato dalla comunità degli iscritti ma designato come candidato unico e senza alternative ufficiali. Nel Pd, Letta è stato eletto all’unanimità, senza congresso e senza alternative. Anche il Pd ha nel suo statuto il vincolo di tre mandati consecutivi, mai rispettato. La Lega non fa più congressi regionali. Fdi prevede nello statuto le primarie, mai fatte. Forza Italia sappiamo cos’è, l’inizio della fine. Poi ci sono i partiti nati in provetta, gruppi costituiti in Parlamento senza legittimazione elettorale. 
 
«Senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso», ha detto Mattarella. Serve una legge che regoli la trasparenza e la democraticità interna dei partiti, attuando l’articolo 49 della Costituzione. 
 
Oppure bisognerà arrendersi e dare ragione al mitico, immenso Altan: «Proporzionale con sbarramento al 70%, così imparate». 
27 Giugno  2022