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Altro che “battaglia di civiltà”: lo ius scholae è uno schifo, e va detto forte e chiaro 
di Ninni Raimondi
 
Altro che “battaglia di civiltà”: lo ius scholae è uno schifo, e va detto forte e chiaro 
 
 
Mentre in Italia si discuteva di ius scholae, a Parigi è arrivata la condanna all’ergastolo per il «nuovo europeo» Salah Abdeslam, il boia del Bataclan. Il caso non esiste mai. Nato cittadino francese, naturalizzato belga, il terrorista di origini marocchine nutriva un odio profondo e radicato per quelli che – passaporto alla mano – erano i suoi connazionali.  
Ovviamente, questo non vuol dire che ogni immigrato diventa automaticamente un islamista assetato di sangue. Eppure, cancellare le origini a colpi di spugna, Imagine e pisellò può portare anche a questo, al paradiso multirazziale che si trasforma in bolgia dei dannati: banlieue, baby gang, ghetti etnici, Peschiera. 
 
Lo ius scholae e il teatrino della politica 
Come al solito, la discussione politica sullo ius scholae si è presto abbassata al livello delle larve. «È una battaglia di civiltà», ha tuonato la sinistra cosmopolita ed etnomasochista. «Pensiamo piuttosto al carovita», ha gridato la destra bottegaia. «Allora siete razzisti», hanno risposto gli amichetti delle Ong. Con la classe dirigente di oggi, d’altronde, era inevitabile strisciare all’altezza dei lombrichi. 
 
La discussione, naturalmente, è mal posta. Lo ius scholae non è né una questione morale, come vorrebbe la sinistra, né una questione securitaria, come rivendica la destra.  
È una questione squisitamente etnica: l’identità nazionale ha a che fare con le origini remote, con il genius loci, con le tradizioni radicate, con sentimenti di appartenenza che hanno attraversato i secoli e non possono essere cancellati semplicemente con il rilascio di un passaporto. E poi, scendendo a valle, ma che cos’è questa buffonata dei cicli di studio? Hai fatto cinque anni di liceo? Oltre al diploma, eccoti in regalo la cittadinanza italiana. Una questione così delicata come le identità etniche ridotta a un concorso a premi. 
 
La missione di Roma e quella di Soros 
Intendiamoci: nel corso della storia, ogni comunità politica ha sempre previsto meccanismi di inclusione dello straniero. Come disse giustamente Berto Ricci, missione di Roma, faro della nostra civiltà immemoriale, «non è quella di contrapporsi ai barbari ma di farli cittadini».  
E infatti, a dirla tutta, personalmente ritengo molto più italiani gli ascari eritrei, caduti armi in pugno per difendere il tricolore, che non la Boldrini o la Bonino, che ci vorrebbero vedere tutti estinti. Ma, appunto, c’è tempo e modo per arrivare all’integrazione. Che non è un «diritto», né tantomeno un’ineluttabilità. L’italianità è sì cultura, ma è anche natura.  
Fregarsene della prima è da bigotti, ma fottersene della seconda è da imbecilli. O da criminali. 
 
30 Giugno  2022