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Savorgnan di Brazzà, l’esploratore italiano che afferrò il cuore dell’Africa 
di Ninni Raimondi
 
Savorgnan di Brazzà, l’esploratore italiano che afferrò il cuore dell’Africa 
 
Una città africana cela l’identità di un insigne romano. Brazzaville, capitale della Repubblica del Congo. Sorge sulla riva opposta a quella di Kinshasa, sul bacino del Malebo, e fu già capitale dell’Afrique-équatoriale française – durante l’era coloniale. Il nome viene da chi la fondò nell’anno 1880, il quale è certamente più noto Oltralpe. E non solo perché egli fu esploratore per conto di Napoleone III, quanto per quel gusto masochistico, antinazionale, vivamente sinistrorso, che l’Italia ha di obliare o annacquare l’eccellenza di certi suoi figli. Pietro Paolo nasce nel 1852, nella Roma dello Stato Pontificio. E’ il settimo dei tredici figli del conte Ascanio Savorgnan di Brazzà, friulano, e di sua moglie Giacinta, aristocratica romana. Dal padre eredita il gusto per l’esotico e per i viaggi, dalla madre un patrimonio immobiliare che consentirà di finanziare le spedizioni dell’età matura. Da entrambi quella sensibilità a non considerare inferiori a sé i selvaggi delle foreste pluviali. 
 
Le prime esplorazioni di Brazzà  
Già allievo dei gesuiti, adolescente viene iscritto al collegio di Saint-Geneviève, muovendosi alla volta di Parigi. Entra poi nella Scuola Navale di Brest, da cui esce ufficiale di Marina nell’anno della breccia di Porta Pia. Forse perché poco propenso a portare sui documenti la croce sabauda del neonato Regno, lui nato e cresciuto papalino, opta per la cittadinanza francese. In Europa è appena iniziata la politica della corsa agli armamenti e alle materie prime, della caccia agli sbocchi extranazionali per merci e capitali. Dopo i tumultuosi anni di metà Ottocento, riprende l’espansionismo coloniale. Così Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Portogallo, Spagna, si spartiranno il continente africano in aree d’influenza sancite dalla Conferenza di Berlino. Ma prima ancora di questi accordi a tavolino, Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, ventiduenne, è partito per l’Africa occidentale, ampiamente inesplorata. Ritiene che l’Ogouè, fra Gabon e Congo, sia un’utile arteria fluviale per penetrare nelle regioni interne, conducendo fino ai Grandi Laghi. Accompagnato da un medico, un naturalista e una dozzina di portatori, è costretto a far ritorno anzitempo, bersagliato il gruppo dalle malattie infettive e dagli agguati degli indigeni. Ha dimostrato inconcludente la sua tesi, ma ha potuto scoprire come un’altra missione avanzi parallelamente alla sua, quella di Henry Morton Stanley. Al soldo di Leopoldo II del Belgio, il britannico sta conducendo, in gran segreto, tremila uomini a sottomettere senza pietà le tribù locali, scatenandone l’aggressività contro l’uomo bianco. Gentiluomo di sangue e di fatto, l’italiano naturalizzato francese prova a liberare quanti più schiavi incontra sul tragitto, pagandone il riscatto ai mercanti. Scrive, deluso, al padre: “Sono rimasti con me un poco di tempo, ma poi mi hanno abbandonato per tornare a quegli stessi che, a forza, prima li avevano resi schiavi”. Riuscirà a tenere con sé solo una piccola orfana, che adotterà e alla quale darà istruzione. 
 
Una seconda esplorazione del 1880, promossa dalla Société Française de Géographie ma pure questa sovvenzionata di tasca propria (ovvero della madre), lo vede percorrere quel fiume “somigliante a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare… la coda perduta nelle profondità del territorio”: il Congo. Antesignano del protagonista del romanzo di Conrad, Brazzà si spinge su un battello e poi a piedi, nella vegetazione, fino alle terre dei Tekè, dove si fa accogliere dal re Illoy I, Makoko di Mbé, convincendolo a mettere il suo regno sotto la protezione di Napoleone III, prima che giungano i belgi. Non è un raggiro dell’astuto imperialista sull’ingenuo selvaggio. E’ realmente interessato alla causa degli africani, per i quali reputa un bene la civilizzazione per mano europea. Tornato a Parigi, la sua fama lo ha anticipato. Dopo tre anni in missione, con in tasca l’accordo per quel protettorato che ha bruciato sul tempo la rivalità di Bruxelles, è degnamente accolto. I giornali ne raccontano l’impresa. E nel tempo in cui le masse sanno ancora render onori a quegli uomini di valore più tardi scalzati dai fantocci del cinematografo, Brazzà è un personaggio di successo. Cool, diremmo noi. Louis Vuitton gli realizza, su suo stesso disegno, il baule-letto e il baule-scrivania che porterà nei successivi viaggi. Nadar lo ritrae nel suo studio prestigioso, il turbante in testa ed un fondale pittorico secondo il gusto della Belle Époque. 
 
Nel cuore del Congo 
A confrontare oggi il ritratto di Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà con quello di Henry Morton Stanley, s’intende come l’uno e l’altro incarnino opposte sensibilità, fisicità, intenzioni. Il primo, a piedi nudi, disarmato, la barba sul docile viso scarno, iconograficamente un Cristo degli indigeni. Il secondo, con stivali e carabina Winchester, un ragazzino di colore a fargli da paggio, le guance paffute e il profilo rapace dell’imperialismo alla God save the queen. “Non ho l’abitudine di viaggiare nei paesi africani in qualità di guerriero, come il signor Stanley, sempre accompagnato da una legione di uomini armati” – riporta il diario del Nostro – “e non ho bisogno di fare scambi perché, viaggiando come un amico, trovo dappertutto gente ospitale”. La notorietà lo fa accedere ai piani alti del potere. Entra nella Massoneria, dalla quale però, disgustato, si allontanerà pochi anni più tardi. Riconosciuti i possedimenti in quel di Berlino, è nominato luogotenente e commissario generale della Repubblica del Congo, al confine con quello che è nato quale Stato Libero del Congo, sotto controllo del Belgio. “Libero” per modo di dire, come “Democratica” sarà, il secolo dopo, la DDR dei Soviet in terra tedesca. Accordi internazionali bandiscono la schiavitù, ma a migliaia di chilometri dalle stanze in cui erano stati firmati equivalgono a carta straccia. 
 
La foresta alimenta la nascente industria del caucciù, antenato della plastica. I congolesi servono da manodopera per la raccolta e il trasporto della redditizia resina. Ogni villaggio è costretto a presentarne ai funzionari coloniali una quota. Se le consegne sono minori di quelle richieste, gli uomini di Leopoldo II passano alla mutilazione di mani e piedi, pratica di cui gli scatti d’epoca portano riscontro. Se un villaggio reclama malauguratamente la propria libertà, gli viene devastato il raccolto. Se la lezione non è stata compresa, il villaggio è raso al suolo, gli abitanti in parte lasciati morire, in parte deportati. Non prendeva forse ispirazione da qui, Josif Stalin, quando si occupava dei kulaki? Calcolano gli storici, in solo ventanni, dieci milioni i morti nel Congo belga. “L’orrore! L’orrore!” – saranno le ultime parole del mister Kurtz di Cuore di tenebra. Altre da quelle che Leopoldo II userà, bruciando gli archivi che registrano le sue nefandezze: “Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che vi ho fatto”. Ma là dove può fallire la giustizia dell’uomo, non tradisce quella storica, che ci consegna una città congolese che porta ancora il nome dell’esploratore, mentre inabissa nell’oblio del disonore la Léopoldville del sovrano carnefice, oggi Kinshasa. 
 
Un colonialismo romantico 
Perché l’idea che Brazzà ha del colonialismo è romantica, nobile, bella, da signore medievale. La colonia sotto il tricolore francese diventa così la versione umana di quella sul versante opposto delle acque. Il neo governatore ha però commesso un errore che gli sarà fatale, concependo e mettendo in pratica un modello coloniale che non è al passo coi tempi, poiché cozza fragorosamente con la logica del profitto duro e puro, capitalista. I resoconti sull’amministrazione di Brazzà iniziano a circolare. E’ tacciato di favorire gli africani a danno dei francesi. Le Matin riporta che “continua a fare filantropia, rifuggendo da qualsiasi forma di colonizzazione… Rispetto agli indigeni, veste i panni del professore che rimpinza i suoi allievi di marmellate, nell’attesa che questi ultimi gli chiedano di insegnarli del greco e del latino. Gli indigeni continuano così a saggiare le nostre marmellate, ma derubano e massacrano i nostri connazionali”. Destituito dal giorno alla notte, Brazzà è costretto a lasciare il campo ad uomini più à la page di lui. Sposa Thérèse, discendente del marchese de La Fayette. Si trasferiscono ad Algeri, dove crescono quattro figli. Ma poi il governo francese torna sui suoi passi e gli offre di tornare in Africa occidentale. La colonia sta per implodere, il governo rischia. L’opinione pubblica è venuta a conoscenza della condotta dei funzionari coloniali Fernand Gaud e Georges Toqué, è montata la protesta. In occasione delle celebrazioni pubbliche per la presa della Bastiglia, i due hanno organizzato un macabro set di fuochi d’artificio. Le Matin parla di “un negro steso a terra, ben legato [che] è servito per far esplodere una cartuccia di formidabile esplosivo, precedentemente montata sulla sua schiena”. 
 
Memoria pura di sangue umano 
Questo ed altro riportano i quotidiani, corredando il tutto con vignette dal dubbio gusto satirico, degne del futuro Charlie Hebdo. Fra i congolesi è vivo il ricordo del “dolce e paziente” ex governatore, il suo ritorno servirà a tamponare lo scandalo e a rabbonire gli indigeni. Così Savorgnan di Brazzà è fatto rientrare nella città che porta il suo nome. In veste di ispettore, indaga per appurare se le violenze siano isolate o il modus operandi dell’intero corpo dei funzionari. Questi riescono a fargli attorno terra bruciata. Finché, durante una danza in suo onore, uno stregone Tekè gli fa intendere, a gesti, l’esistenza di un campo di prigionia in cui il suo popolo è vessato. Brazzà torna esploratore, si mette in cammino nella foresta, verso nord, trova quel luogo. Raccoglie testimonianze delle atrocità commesse, annota i nomi dei responsabili. Compila un dossier da recare di persona a Parigi. Ma non raggiungerà la tappa conclusiva dell’ultima missione – “intrapresa per salvaguardare i diritti degli indigeni e l’onore della nazione” – la più semplice sulla carta, la più ostile essendo in gioco lucrosi interessi commerciali. Improvvisamente caduto malato – si parla di avvelenamento – la nave lo sbarca all’ospedale di Dakar, dove muore nel settembre 1905. 
 
Le sue carte, nascoste nel doppio fondo dei bagagli Louis Vuitton, proseguono il viaggio per la capitale francese. Qui, uomini di fiducia riescono a consegnarle nelle stanze governative, ma la relazione di Brazzà sarà prontamente rigettata dall’Assemblea nazionale. Thérèse, degna compagna della vita, rimanda al mittente la proposta con cui i nemici dell’esploratore hanno offerto una tomba nel Pantheon di Parigi.  
E ne seppellisce le spoglie ad Algeri (nel 2006 traslate a Brasville). Sulla lapida vi fa scrivere: “Sa mémoire est pure de sang humain – La sua memoria è pura di sangue umano”. 
17 Ottobre  2022