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Altro che contante: per combattere l’evasione attacchiamo piuttosto i paradisi fiscali Ue 
di Ninni Raimondi
 
Altro che contante: per combattere l’evasione attacchiamo piuttosto i paradisi fiscali Ue 
 
 
Per stanare chi elude il fisco, ogni governo ha dichiarato guerra alle banconote. Ma il vero problema è Bruxelles che favorisce i soliti furbetti del Nord Europa 
La lotta all’evasione è un terreno fertile, utilizzato ormai da chiunque per ergersi a grande eroe popolare. Le cifre? Mostruose: se l’evasione venisse azzerata, saremmo tutti benestanti. Non passa governo senza che gli introiti derivanti dal suo contrasto non aumentino, anche considerevolmente. Di conseguenza, gli esecutivi hanno a disposizione un gruzzolo sempre più cospicuo da destinare al benessere della collettività, ossia all’abbattimento delle tasse. Sì, perché il racconto che viene propinato è quello delle tasse che verranno abbassate quando le pagheremo tutti, ed è proprio in questo segmento di narrazione che viene a delinearsi la più importante bipartizione del genere umano: chi pensa che con meno evasione le tasse verrebbero abbassate, e chi pensa che con meno tasse l’evasione si ridurrebbe. 
 
La criminalizzazione dell’evasore risulta ghiotta a chi, pur riempiendosi la bocca, in fondo mira a limitare le libertà individuali, condannando orizzontalmente tale fenomeno. Anche perché, se il fine ultimo è l’abbassamento delle tasse, straparlare di lotta all’evasione in questi termini truci e legalitari è un controsenso. Va detto, difatti, che l’evasore riduce il suo carico fiscale decidendo di sopportarne solo un po’. Insomma, le tasse se le abbassa da sé. È ovvio che non è possibile lasciare ai singoli la libertà di decidere quante tasse pagare, altrimenti nessuno ne pagherebbe mezza. Ma è altrettanto palese la contraddizione di chi fa proclami sulla lotta all’evasione come unico mezzo per ridurre le tasse, senza poi però ridurle, anzi preparando la ghigliottina per chi decide di non sopportare una pressione fiscale pesante come un macigno. 
 
Il governo giallofucsia ha minacciato un giro di vite sui pagamenti in contante, ritenendoli il mezzo più utilizzato dalla marmaglia di evasori che ammorba la nazione. Quindi ammazzano l’uso del cash poiché, incentivando l’utilizzo dei pagamenti elettronici, aggredirebbero la massa d’evasione. Da un punto di vista filosofico, oltreché economico, è indecente che un governo imponga dall’alto una sola modalità per pagare beni e servizi, dal momento che, se guadagnati lecitamente, i soldi devono poter essere spesi come meglio si crede. L’istituzione di un «Grande Fratello», per cui chi usa i contanti sarebbe attenzionato dalle autorità, è un’ingiustizia che grida vendetta, calpestando anche il sacrosanto diritto di essere considerati in ogni momento della nostra vita innocenti fino a prova contraria: tanto più che, come nel caso di specie, non v’è alcuna notizia di reato. E poi la farsa nella tragedia, dato che si è addirittura ventilato un possibile aumento dell’Iva. Come se per curare un malato gli si iniettasse un po’ di veleno. 
 
I colossi dell’evasione fiscale 
Probabilmente sono anche affetti da strabismo, perché i centri d’interesse dove attaccare l’evasione per trarne delle entrate non sono certo rappresentati dai nostri nonni che preferiscono le banconote alle carte di credito. Il caso del Lussemburgo è emblematico. Questo Paese di 600mila anime ha trasformato in legge la direttiva europea che permette alle società di pagare le tasse ove si trova la sede legale e non dove avviene il processo produttivo. E, sebbene non risulti nella lista nera dell’Ocse, l’Oxfam lo inserisce nel gruppo dei paradisi fiscali assieme all’Olanda, all’Irlanda e a Cipro. Divertente il fatto che dal 1995 al 2013 il primo ministro lussemburghese sia stato tale Jean-Claude Juncker, talebano del rigore europeista e dell’austerità a tutti i costi. La mancanza di armonizzazione fiscale tra gli Stati membri è l’ennesima dimostrazione di come un corpo normativo sbagliato possa rendere insostenibile la convivenza tra soggetti con caratteristiche diverse, ma assoggettati a rigide regole che li colpiscono indiscriminatamente. L’Italia, anche a causa di Maastricht, non potrebbe permettersi di competere col Lussemburgo sul piano dei favori fiscali. 
 
Si chiama concorrenza sleale 
L’Olanda, a sua volta, opera una concorrenza sleale per quanto riguarda le tasse sulle royalty. Nella terra dei tulipani non sono tassati i pagamenti sull’utilizzo di detti beni. Su 4.500 società che si trovano fra Amsterdam e L’Aia, solo 200 risultano tassabili, con 50 miliardi di euro di base fiscale sottratti agli altri Stati. E sfugge il senso del rigorismo da loro sempre sbandierato, adducendo a motivazione il dovere che tutti hanno da fare la propria parte, nel momento in cui i suoi governi operano con sfacciataggine questo genere di concorrenza sugli altri Paesi Ue. 
 
Il risultato complessivo ce lo offre una recente ricerca, The missing profits of nations (settembre 2019), con la quale si è stilata una particolare «classifica» fra chi vince e chi perde. Ebbene, l’Italia è in rosso con oltre 24 miliardi di profitti letteralmente «spostati» all’estero che si trasformano in più di 7,5 miliardi di mancati introiti per l’erario. I principali beneficiari? Nell’ordine: Lussemburgo, Irlanda e Olanda. Questo europeismo è divenuto l’ultima spiaggia della sinistra senza arte né parte, sconfitta e succube del suo senso di superiorità, inconsapevole di come sia ridicolmente scivolata da Marx alle multinazionali che trovano riparo nella loro amata Europa. 
 
12 Dicembre  2022