Questo Sito non ha fini di lucro, né periodicità di revisione. Le immagini, eventualmente tratte dal Web, sono di proprietà dei rispettivi Autori, quando indicato.  Proprietà letteraria riservata. Questo Sito non rappresenta una Testata Giornalistica in quanto viene aggiornato senza nessuna periodicità. Pertanto non può essere considerato, in alcun modo, un Prodotto Editoriale ai sensi e per gli effetti della Legge n.62 del 7 Marzo 2001.
 
 
Scarica il PDF della situazione
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Interni
Esteri
Cultura
Parolatio
 
 
La nuova emigrazione itaaliana
 
La nuova emigrazione italiana 
di Ninni Raimondi
 
 
La grande depressione 2008/2013, radice infetta della nuova emigrazione 
Dal 2009 il Pil italiano è crollato di una cifra superiore ai 300 miliardi di euro; e se l’economia ritroverà un tasso di crescita media annua del 2,5%, tornerà ai suoi vecchi livelli solo nel 2040. Un’intera generazione di massa ridotta alla povertà. Una contrazione della ricchezza nazionale così prolungata nel tempo non si era mai verificata prima 
Secondo una recente ricerca del Centro Studi Confindustria “Le condizioni dell’industria manifatturiera italiana a metà del 2013 appaiono fortemente critiche a causa delle conseguenze delle due forti recessioni che si sono susseguite in rapida successione. La lunghezza e la profondità della caduta dei livelli produttivi mettono a repentaglio la sopravvivenza di migliaia di imprese e di interi comparti produttivi". 
 
Le due recessioni che hanno colpito l’economia e l’industria italiane sono diverse per intensità, lunghezza e natura. La prima nel 2008-2009 è durata sette trimestri, sebbene non consecutivi, ha comportato una caduta del PIL del 7,2% e della produzione industriale del 26,6% ed è stata guidata soprattutto dalle esportazioni (-21,7%), piuttosto che dalla domanda interna (-3,8%). La seconda è ancora in corso ed è stata finora lunga otto trimestri (record nel dopoguerra), ha comportato una riduzione del PIL del 4,1% fino al primo quarto 2013 ed è stata determinata dal crollo della domanda interna (-11,7% fino all’ultimo trimestre 2012), mentre l’export è salito del 5,1%. 
La crisi ha già intaccato la base produttiva dell’industria e il CSC valuta questa erosione sia nel numero di imprese che hanno cessato l’attività, ripartite tra i diversi settori e tra le diverse regioni, sia attraverso la stima del potenziale manifatturiero, dato dal rapporto tra il livello della produzione e quello della capacità produttiva impiegata. Rispetto a prima della crisi il potenziale si è ridotto di oltre il 15%. 
In Italia la maggior parte dei settori ha visto una diminuzione del potenziale pari o superiore a un quinto (con una punta del 41,2% negli autoveicoli e rimorchi). 
Perciò la riduzione dei prestiti bancari, che dal 2011 è stata particolarmente acuta nel manifatturiero sia in valore assoluto sia in percentuale, minaccia la prosecuzione della normale operatività in una quota sempre più ampia di imprese.” 
Nel 2007 le imprese manufatturiere erano 390.486: Dal 2009 al 2012 hanno cessato di esistere 54.474 imprese manufatturiere (dati Unioncamere) , di cui ad esempio oltre 3.000 nel settore dei mobili, 400 del settore dei prodotti alimentari, 4.900 di abbigliamento, oltre 1.900 di computer e prodotti per ufficio, 9.000 di prodotti di metallo. Con riferimento al solo settore manifatturiero, nel corso delle due recenti recessioni si è avuta una profonda riduzione del prodotto potenziale, il cui livello nel primo trimestre 2013 era equivalente a quello raggiunto agli inizi del 1990. Come detto, rispetto ai valori massimi pre-crisi(2008) esso è inferiore del 15,3%. 
 
Ciò è il risultato di un calo dell’attività manifatturiera del 24,5% e di una riduzione del grado di utilizzo degli impianti di circa 8 punti (dal 76,1% al 68,0%) nel quinquennio considerato. Il ritorno sui livelli di prodotto potenziale precrisi, nell’ipotesi ottimistica che gli impianti produttivi lavorino di nuovo a pieno ritmo, richiederebbe un incremento della produzione manifatturiera di circa il 37%. 
È realistico supporre che, data la profondità della caduta di attività, il conseguente restringimento della base imprenditoriale, la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e, soprattutto, il forte arretramento della domanda interna, una parte della riduzione del prodotto potenziale sia permanente. 
In Italia il maggior calo di potenziale si è avuto nei settori di produzione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (-41,2% al primo trimestre 2013 rispetto al picco pre-crisi), legno (-36,9%), tessile (-30,3%) e minerali non metalliferi (-29,3%). La riduzione più contenuta è stata registrata negli alimentari (-4,4%) e nella farmaceutica (-6,7%). 
Il drammatico scenario economico non riguarda solo il manifatturiero. Le aziende agricole presenti nel 2000 in Italia erano 2.396.274; nel 2010 , 1.620.884, ben il 32,4% in meno, con punte di meno 40% in toscana, meno 45% in Liguria, meno 48% nel Lazio. 
Dal 2008 al 2013 nel settore dell’edilizia si sono persi 690 mila posti di lavoro e sono fallite oltre 11 mila imprese (fonte Ance). L’acquisto di nuove abitazioni, nello stesso periodo, ha subito un crollo di 74 miliardi di euro. 
 
Oltre ad un’imposizione fiscale altissima – per pagare le tasse un imprenditore italiano deve lavorare 269 giorni, un austriaco 170, uno svizzero solo 63 – un altro freno alla rinascita industriale viene da una burocrazia inadeguata ai tempi moderni: per avviare un’impresa in Italia servono 78 adempimenti e 40 giorni. Secondo la Cgia di Mestre il costo della burocrazia a carico delle imprese è pari a 31 miliardi di euro all’anno. I tanti vincoli derivanti dai trattati europei e dalle varie Basilea insieme ai mancati pagamenti delle pubbliche amministrazioni, stanno spazzando via l’offerta delle piccole e medie imprese italiane ed interi distretti industriali dallo scenario competitivo internazionale. 
E dunque dopo la progressiva fine della grande impresa italiana tramite operazioni di smembramento e cessione del mondo IRI, la crisi si è violentemente abbattuta sulle piccole e medie imprese italiane e sul sistema del distretto industriale. Si ricorda che solo alla fine degli anni '80 si contavano nel centro nord ben 60 distretti industriali principali, dell’ingegneria o dell’elettronica, dell’abbigliamento e delle calzature, delle piastrelle e delle macchine utensili. Questi distretti davano vita ad un modello denominato del terzo capitalismo e venivano elogiati come punto più alto dell’esperienza industriale italiana. 
A questo quadro, con tinte fortemente scure, si deve aggiungere la progressiva perdita di fiducia dei consumatori e degli imprenditori, con conseguente diminuzione della propensione a consumare e ad investire, che a sua volta ha innescato un circuito vizioso ancora più declinante, favorito da una incredibile ed improvvida stretta creditizia. I governi tecnici e politici, che conoscono molto bene i principi dell’economia, hanno incredibilmente applicato in una fase recessiva misure pro cicliche e quindi restrittive, della domanda e dell’offerta, senza però ridurre la spesa pubblica primaria né, ancor più grave, individuare meccanismi di miglioramento qualitativo della pubblica amministrazione. 
Di conseguenza: più pressione fiscale, compreso lo straordinario e dannosissimo aumento dell’Iva, taglio degli incentivi, anche sulle energie rinnovabili, guerra scenografica al consumo non solo di lusso, spremitura fiscale delle partite Iva, costruzione di strumenti di controllo, il redditometro, da una parte utili a stanare parte dell’evasione ma dall’altra inibenti la crescita dei consumi. E senza crescita degli investimenti privati e della domanda, il rapporto Pil/debito non può che peggiorare. In più, senza alcuna direzione sul sistema creditizio, che, pur ricevendo liquidità dalla Banca Centrale Europea, si è ben guardato dall’immetterla nel sistema delle famiglie e delle imprese, preferendo comprare titoli di Stato e quindi finanziando la spesa ed il debito pubblico anziché i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese, oppure continuando ad investire nel più rischioso ma più redditizio mercato finanziario internazionale. 
A tal proposito si legge nel recente Il colpo di Stato di banche e governi di Luciano Gallino: “La pratica di concedere fiumi di liquidità alla banche europee senza richiedere alcun impegno circa gli impieghi che ne avrebbero fatto a favore dell’economia reale è proseguita da parte della Bce anche negli anni successivi. Ne sono prova gli oltre 1000 miliardi di euro prestati a esse tra fine 2011 e inizio 2012. Le sue azioni hanno manifestamente privilegiato gli interessi del sistema finanziario rispetto a quelli dell’economia reale. Contribuendo in tal modo ad accrescere il numero di disoccupati della Ue”. 
 
Le categorie produttive italiane, e quindi le piccole e le medie imprese, sono a rischio per una sfrenata concorrenza internazionale, senza alcuna protezione istituzionale, ma al contrario vessate di tasse che incentivano le dismissioni più che gli investimenti. 
È in moto un cambiamento radicale del nostro sistema sociale: cambiamento che in modo subdolo e permanente ha depresso lo spirito del fare, generando un sistema di paura diffusa, di passività e di rassegnazione e quindi limitando fortemente la libertà di azione, spezzata alla radice dal senso d’impotenza. 
Un attacco competitivo che forse inizia nei primi anni '90 e che è certamente riuscito a smantellare le partecipazioni statali – l’IRI e la Stet sono un lontano ricordo – è da diversi anni impegnato ad acquisire gran parte del nostro made in Italy, ora in mani estere, dalla moda all’alimentare, e sta infine attaccando la classe artigiana, sommergendola di tasse, di debiti e negandogli i crediti. 
Solo dal 2008 al 2012 sono stati registrati 437 passaggi di proprietà dall’Italia all’estero: i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per ottenere i marchi italiani. 
Nell’alimentare, la multinazionale anglo-olandese Unilever ha acquistato la Algida, la Sorbetteria Ranieri (chiusa da dieci anni), il Riso Flora, la Bertolli e la Santa Rosa, che però nel 2011 è tornata italiana grazie all’acquisto da parte della Valsoia. Molti anche gli acquisti della Kraft (Invernizzi, Negroni, Simmenthal, Splendid, Saiwa) e della Nestlè (Buitoni, Perugina, Sasso, Gelati Motta, e Alemagna, che però nel 2009 torna italiana con la Bauli). Tra gli elettrodomestici spicca la Zanussi, acquistata nel 1984 dalla svedese Electrolux. Per i mezzi di locomozione ci sono le biciclette Bianchi (amate da grandi campioni del passato come Gimondi e Coppi), adesso della svedese CycleuropeA.B., le biciclette Atala, adesso per il 50% della turca Bianchi Bisiklet, le moto Ducati e le auto Lamborghini, entrambe di aziende del Gruppo Volkswagen. Per la moda sono passate ad aziende straniere Fiorucci, Mila Schon, Conbipel, Sergio Tacchini. Il Gruppo Kering ha acquistato marchi di grande peso, da Gucci a Bottega Veneta a Brioni e Pomellato. Per l’arredamento sono finite in mani estere la Pozzi-Ginori, la Ceramica Dolomite, le Ceramiche Senesi, il Gruppo Marrazzi, leader internazionale nel settore delle piastrelle di ceramiche. 
 
Il risultato dell’assenza di una politica industriale è di una contemporanea attivazione di una politica dell’austerità è che molte imprese hanno chiuso e molte sono passate a proprietà estere, e quindi il patrimonio economico è diminuito, e il ceto medio, vera e propria locomotiva dello sviluppo industriale italiano, dal quale è certamente nato il fenomeno del made in Italy nel mondo, è sempre più povero e timoroso: quando le imprese, per diversi motivi, chiudono, il lavoro semplicemente finisce. 
Siamo insomma passati dall’essere la quinta potenza economica mondiale nel 1992 ad essere un Paese dove, secondo l’Istat, il 55% delle famiglie vive in uno stato di deprivazione relativa, ovvero non arriva a fine mese. 
L’Italia, con il 48,3% di forza lavoro (occupati o in cerca di occupazione) sul totale della popolazione compresa tra i 15 ed i 65 anni, è uno dei Paesi con il più basso tasso di partecipazione al lavoro (esso è passato dal 48,6% nel 2009 al 48,3% nel 2010 – ultimo dato disponibile per un confronto internazionale – dati Ilo). 
Il rischio che si creino maggiori disuguaglianza economiche e sociali è elevato. Una grossa fetta della popolazione ha ormai rinunciato alla ricerca di un impiego lavorativo regolare. 
Questo, insieme all’elevato Debito Pubblico, che lo posiziona al terzultimo posto tra i 43 Paesi Avanzati, rende l’Italia uno dei Paesi meno favorevoli alla stabilità economica delle giovani e future generazioni. 
Nel 2012, il 29,9% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell’ambito della strategia Europa 2020. L’indicatore deriva dalla combinazione del rischio di povertà (calcolato sui redditi 2011), della severa deprivazione materiale e della bassa intensità di lavoro. L’indicatore adottato da Europa 2020 viene definito dalla quota di popolazione che sperimenta almeno una delle suddette condizioni. 
L’aumento della severa deprivazione, rispetto al 2011, è determinato dalla più elevata quota di individui in famiglie che non possono permettersi durante l’anno una settimana di ferie lontano da casa (dal 46,7% al 50,8%), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente la propria abitazione (dal 18,0% al 21,2%), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 38,6% al 42,5%) o che, se volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 12,4% al 16,8%). Quasi la metà (il 48%) dei residenti nel Mezzogiorno è a rischio di povertà ed esclusione ed è in tale ripartizione che l’aumento della severa deprivazione risulta più marcato: +5,5 punti (dal 19,7% al 25,2%), contro +2 punti del Nord (dal 6,3% all’8,3%) e +2,6 punti del Centro (dal 7,4% al 10,1%).Il rischio di povertà o esclusione sociale è più alto per le famiglie numerose (39,5%) o monoreddito (48,3%); aumenti significativi, tra il 2011 e il 2012, si registrano tra gli anziani soli (dal 34,8% al 38,0%), i monogenitori (dal 39,4% al 41,7%), le famiglie con tre o più figli (dal 39,8% al 48,3%), se in famiglia vi sono almeno tre minori. 
 
Tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha dunque avuto una perdita secca di 10 punti percentuali del Pil, mentre nello stesso periodo il Pil della Cina cresceva del 74,4%, quello degli Stati Uniti dell’8,7%,il Giappone dello 0,4%, mentre nell’ Eurozona a fronte della crescita del 5,8% della Germania, la Francia è cresciuta del 2,8%. Tra i paesi Eurozona con segno negativo del Pil nello stesso periodo, accanto all’Italia vi sono la Spagna al – 3,8%, e la Grecia al -25,1%. 
Negli ultimi due anni, 2015 e 2016, il Pil dell’Italia ha recuperato uno 0,8% annuo, per un totale in due anni del 1,6%. E nel 2017 è cresciuto dell’1,4%, comunque ben al di sotto della media europea. 
Al termine del 2017 il Pil italiano restava del 5,7% più basso di quello del 2007, ultimo anno prima della crisi mondiale e in cui abbiamo prodotto il massimo livello di ricchezza. Rispetto ad allora, risulta arretrato dell’8,2% anche il Pil pro-capite. Ebbene, nello stesso periodo, il Pil pro-capite spagnolo è tornato ai livelli pre-crisi, quello tedesco è salito del 9,3%, quello francese dell’1,8% e nel Regno Unito del 3,1%. E la media dell’Eurozona è stata nel decennio del +2,7%. 
Dunque, tutti gli altri hanno compiuto passi in avanti e noi abbiamo indietreggiato e di parecchio. Rispetto a un cittadino medio dell’Eurozona, in 10 anni siamo andati indietro di circa l’11%. Disarmante il confronto con i tedeschi: -17,5%. Il differenziale di Pil pro capite medio tra Germania e Italia dagli anni 90 agli anni 2000 e` passato da 1500 euro a oltre 8000 ( in precedenza era costante) con una perdita secca di 6.500 euro a testa. Negli anni '90 l’Italia aveva un Pil pro capite medio di 4000 euro superiore alla media europea. Oggi il Pil pro capite italiano e` sotto la media europea di 4.500 euro. 
La produzione industriale in 10 anni è crollata o per cessata attivita` o per passaggio nelle mani di multinazionali straniere, da che ne e` seguita, nel migliore dei casi, il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in Italia e il trasferimento dei profitti all’estero, nel peggiore la pronta delocalizzazione delle produzioni . Logiche le ripercussioni negative sul mercato del lavoro, con il tasso di disoccupazione quasi raddoppiata tra il 2007 e il 2013, scendendo negli ultimi 4 anni di poco più del 2%, ma restando nei dintorni dell’11%, circa il 2% in più rispetto alla media dell’Eurozona. 
Il confronto sull’occupazione a livello europeo segna le difficoltà politiche ed economiche del nostro paese: se Germania e Regno Unito superano tassi del 75%, la Francia sfiora il 66% e la Spagna si attesta al 62,5%, in Italia non si va oltre il 58%, stessa percentuale record pre-crisi del 2008, ma distante dalle altre economie avanzate. 
Il tasso di disoccupazione in Italia nello stesso periodo preso in esame non corrisponde a quello ufficiale del 12%, il quale non considera le persone sfiduciate che non cercano piu` lavoro, ma sale vertiginosamente al 22,8% della popolazione in eta` lavorativa se nel computo vengono appunto comprese le persone inattive che si suddividono nelle seguenti categorie: gli inattivi che non cercano piu` lavoro ma sono disponibili a lavorare (un milione e cinquecentomila) , e gli inattivi che cercano lavoro non attivamente ma disponibili a lavorare (due milioni e centomila), per un totale complessivo tra disoccupati «ufficiali» e «ufficiosi» di sei milioni e seicentomila. 
 
Al centro della disoccupazione italiana e` la disoccupazione giovanile attestatasi nel 2017 intorno al 40 % e scesa al 35% nel 2017. 
Innegabile come ad avere incentivato la lieve ripresa degli occupati sia stato il Jobs Act, varato dal governo Renzi con due provvedimenti legislativi nel corso del 2014 e con effetti pieni a decorrere dal 2015. Da allora, risulta essere stato creato un milione di posti di lavoro, di cui 585.000 a tempo determinato, tuttavia. È dalla metà dello scorso anno che gli occupati temporanei cumulati dal Jobs Act in poi rappresentano più della metà del totale, ovvero man mano che gli effetti della decontribuzione e gli incentivi legati alla graduale applicazione delle tutele dell’art.18 sono venuti meno. All’inizio del 2016, i contratti accesi a tempo indeterminato rappresentavano ancora quasi l’85% del totale cumulato. 
Un’economia italiana fragile, legata soprattutto all’andamento delle esportazioni: a fronte di un crollo della produzione e dei consumi interni, ad esempio, le esportazioni sono salite quasi costantemente dal 2009, superando i livelli del 2007 già nel 2010 e segnando un aumento decennale del 50% a fine 2017, quando verosimilmente il saldo commerciale netto annuo dell’Italia si sarà attestato intorno al 3% del Pil, replicando il record del 2016. 
Possiamo contare almeno un successo in piena crisi, ovvero il rilancio del Made in Italy, anche se parte della proprietà del capitale e’ francese o tedesca. Inoltre qui siamo stati beneficiati dall’euro debole. Il cambio contro il dollaro, ad esempio, si è deprezzato dando una mano alle esportazioni di tutta l’area. Anche il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime dal 2014 ha contribuito alla crescita del nostro export, abbassando i costi di produzione in un’economia che notoriamente deve importare tutte le “commodities”, sostenendo la nostra competitività. 
L’Ocse conferma la crescita dell’1% del Pil italiano per il 2017, ma taglia le previsioni per il 2018 dall’1% indicato a marzo allo 0,8%. Si tratta del dato peggiore tra tutti i maggiori paesi. L’Ocse prevede un deficit/pil al 2,1% quest’anno e all’1,4% il prossimo e un debito pubblico in calo al 131,8% nel 2017 e al 130,6% nel 2018, dopo il 132,5% toccato nel 2016. Il tasso di di-soccupazione è atteso in flessione all’11,5% quest’anno e all’11,2% il prossimo, dall’11,7% del 2016. È tuttavia in rallentamento la crescita dell’occupazione da +1,3% nel 2016 a +0,7% quest’anno e a +0,5% il prossimo. Ne risentirà la dinamica dei consumi: la domanda interna, dopo essere cresciuta dell’1,1%, dovrebbe accontentarsi di +1% nel 2017 e dello 0,9% nel 2018. 
A pesare sull’anno prossimo sarà una correzione dei conti pubblici “richiesta dalle regole Ue, anche se l’economia sta funzionando ben al di sotto del suo potenziale e la ripresa resta fragile”, indica l’Economic outlook semestrale dell’organizzazione. L’assunto è che la correzione implichi un mix di aumento delle tasse sui consumi e di tagli alla spesa. Mentre per l’Ocse, l’Italia dovrebbe dare priorità “agli investimenti pubblici in infrastrutture, a programmi di ricerca e alla lotta alla povertà e al proseguimento delle riforme strutturali” che accelererebbero la ripresa e alzerebbero l’output potenziale, oltre a rendere la crescita più inclusiva e a ridurre il rapporto debito/Pil, che intanto si è “stabilizzato”, ma resta il primo dei problemi. 
L’export, che si avvantaggia del rafforzamento della domanda globale e del calo dell’euro, è stimato in aumento del 4,1% nel 2017 e del 3,6% nel 2018, ma sono in netta crescita anche le importazioni (+4,7% e +3,9%). L’inflazione, dopo -0,1% nel 2016, dovrebbe essere dell’1,5% nel 2017 e dell’1,3% nel 2018. 
Dunque si è creato nel nostro Paese un clima ostile per chi studia, per chi produce e per chi acquista: ed è proprio questo clima il primo fattore di decadenza e di limitazione della libertà. 
Alla luce di quanto sin qui scritto, si può dire che dal 2008 è in corso una vera e propria guerra economica che sta minando le fondamenta del welfare state in tutti i paesi occidentali, guerra scoppiata per la concomitante e nefasta sinergia di tre grandi cause, dalle quali sono poi esplosi molteplici negativi effetti: 
 
La grande recessione industriale, dovuta all’incontrollata globalizzazione, all’innovazione tecnologica di matrice oligopolistica, alla drammatica diminuzione del reddito disponibile di gran parte della popolazione ed al conseguente crollo dei consumi; 
la finanziarizzazione del modello di sviluppo, nato anche come errata risposta alla recessione industriale nel tentativo di finanziare la domanda e l’esplosione dell’indebitamento pubblico e privato; 
la cessione di sovranità nazionali in materia di politica economica dovuta all’adozione dell’euro, e le conseguenti scelte di austerità, parità del bilancio, spending review, alta 
pressione fiscale;  
tutte scelte chiaramente pro-cicliche recessive. 
 
Questa guerra ha stremato le forze produttive del nostro paese ed ha fortemente indebolito le forze sociali, riducendo gran parte degli italiani in uno stato di povertà e deprimendo i nostri giovani, ormai privi di speranze lavorative. 
Il grave e sotterraneo fenomeno dell’emigrazione italiana è la diretta conseguenza della colpevole assenza di risposte politiche ed economiche, oppure di risposte particolari e antisistemiche, alla grande crisi economica economica e politica che ha radicalmente trasformato il sistema produttivo del nostro Paese. 
 
Licenza Creative Commons  11 Maggio 2018
2013
2014
2015
2016
2017
2018