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Trump e i suoi dazi 
di Ninni Raimondi
 
 
Tutte le vestali del liberoscambismo si stanno stracciando le vesti: ma come, Donald Trump, il leader della nazione che della globalizzazione dei mercati ha fatto un mantra rivelato a tutto il mondo, sta continuando nella sua folle corsa al protezionismo? Proprio così, il presidente Usa non cede e rilancia: dopo l’annuncio dei dazi sull’acciaio gli Stati Uniti si dichiarano pronti addirittura alla guerra commerciale. 
Il problema, in caso di guerra, è capire le parti in causa. Una è Washington, che dopo la prima tranche di dazi su pannelli solari e lavatrici ha deciso adesso di tassare alla dogana anche i prodotti siderurgici (con tariffe del 25%) e l’alluminio (con tariffe più basse: al 10%). L’altra? L’altra non è dato sapersi, visto che l’Unione Europea, per bocca del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha minacciato ritorsioni: “Tasseremo Harley-Davidson, Bourbon e Levis”. Blu jeans e whiskey (ogni battuta sulle preferenze alcoliche dell’ex premier lussemburghese sarebbero fin troppo facile) contro acciaio. 
Un conflitto, insomma, che ci apprestiamo a perdere già dall’inizio. Quel che nel vecchio continente non si riesce infatti ad afferrare è la ragione per la quale Trump sta procedendo in senso protezionista. Il presidente Usa non lo fa per partito preso nei confronti dell’Europa (che fino a prova contraria non ha fatto nulla di male per “meritarsi” questo trattamento) ma ha ben chiara la politica economica per il suo paese. Gli Stati Uniti vogliono tornare ad essere una potenza manifatturiera? Per farlo è necessario che, senza scendere nell’assistenzialismo, le produzioni nazionali vengano tutelate. 
I dazi doganali, in questo senso, sono una necessità nonché un imprescindibile strumento d’ordine: il mercato non funziona senza regole e correttivi, lasciato in balìa di sé stesso produce distorsioni come, per restare nell’ambito della siderurgia, l’esempio cinese insegna. Dalle parti di Pechino i colossi siderurgici sono sussidiati dallo Stato, di fatto producono sotto costo e spiazzano in questo modo la concorrenza. La quale diventa a tutti gli effetti concorrenza sleale, nemica di ogni scambio che possa portare vantaggio ad entrambi i partecipanti allo stesso. 
 
La Cina è preoccupata, ma fino ad un certo punto. Il suo acciaio, se non potrà finire negli Usa, si riverserà da altre parti. Magari proprio in Europa, dove abbiamo detto addio al settore vista la cronica incapacità dell’Ue (alla quale abbiamo ceduto la competenza esclusiva sulla politica commerciale) di approntare adeguate contromisure. Se non quelle contro gli Stati Uniti, come se la posta in gioco sulla politica dei dazi si potesse ridurre ad una questione di ripicche. 
Licenza Creative Commons  8 Marzo  2018
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