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Il miracolo economico tedesco e i Mini-Bot 
di Ninni Raimondi
 
L'idea 
Alcune proposte di finanza pubblica evocate dal capo economista della Lega, Claudio Borghi, stanno ultimamente suscitando una viva attenzione e aprono, almeno per la prima volta sui grandi media, un dibattito in tema di moneta e politica monetaria. 
A far scalpore, oltre l’uscita dall’euro di cui Borghi è sempre stato grande propugnatore insieme al professor Alberto Bagnai, sono in particolare due proposte, ovvero il pagamento dei debiti dello Stato verso privati e imprese (minibot) e lo scorporo del debito pubblico pagato dall’Italia alla BCE dal calcolo del famoso 3% di rapporto deficit/PIL accettabile per i parametri di Maastricht. 
 
Il chiarimento 
E’ dovuto un chiarimento sul contenuto delle due proposte. 
Nessuna delle due è veramente una proposta rivoluzionaria, non mettendo in discussione il meccanismo di emissione della moneta, vero e reale fulcro della questione monetaria. Tuttavia restano proposte interessanti, capaci, oltre ad apportare gli ovvi benefici economici di sistema a cui mirano, di suscitare anche una nuova consapevolezza tra l’opinione pubblica circa le tematiche di politica monetaria. 
La proposta dei minibot è in effetti un uovo di Colombo, come l’ha definita lo stesso Borghi, e nasce dalla tragica constatazione che in Italia il peggiore pagatore di crediti dovuti sia la Pubblica Amministrazione, ovvero lo Stato stesso, cosa di per sé assurda, dal momento che lo Stato, essendo una controparte di per sé priva di rischio di default, dovrebbe essere il soggetto principe a cui poter concedere credito. 
Invece, per motivi vari, in Italia abbiamo aziende che falliscono dal momento che non riescono ad incassare, magari per anni interi, i crediti che maturano verso strutture della pubblica amministrazione, mentre, contemporaneamente, maturano debiti (tasse, imposte, contributi, etc…) verso il fisco. 
 
Certificato di Credito Fiscale 
L’idea di Borghi è quella per cui lo Stato, nel momento in cui diviene debitore di un privato, emetta in favore del creditore un titolo, una sorta di “certificato di credito fiscale” (CCF), che non faccia altro che attestare l’esistenza del debito stesso contratto tra il privato e lo Stato. 
Il privato, a questo punto, detenendo in mano un titolo di creditom potrà rendere circolarizzabile, e quindi liquidabile, quello stesso credito che in precedenza restava incagliato sulle sue scritture contabili e rimaneva, di fatto, inutilizzabile. 
Il privato, cioè, potrà, a seconda dei casi, scegliere se presentare il proprio titolo di credito in sconto allo Stato come pagamento dei propri oneri fiscali, oppure potrà scegliere di cederlo ad altri privati, che liberamente vorranno accettarlo, come pagamento per la fornitura di beni e servizi. 
 
Autocartolarizzazione 
Correttamente Borghi sottolinea che di fatto, tecnicamente, non si tratta di nuova emissione di moneta da parte dello Stato, né sarebbe registrabile alcun aumento di spesa pubblica, in quanto i certificati di credito fiscali emessi non farebbero altro che attestare una spesa già operata dal parte del settore pubblico e già contabilizzata come tale. La misura altro non sarebbe che un’autocartolarizzazione da parte dello Stato del proprio debito pubblico, dove la prassi della cartolarizzazione è uno strumento ormai ampiamente diffuso presso la finanza privata per rendere circolarizzabili i crediti deteriorati emessi dai privati. 
Come benefici si avrebbe non solo la soddisfazione immediata di tutte le controparti creditrici dello Stato, con la riduzione dei relativi costi derivanti dalle lunghe attese per la riscossione, ma anche un aumento implicito della velocità di circolazione della massa monetaria. Pur non essendo moneta, come non sono moneta i titoli di debito pubblico facilmente liquidabili, come i Bot, qualora i privati li utilizzassero per regolare i propri scambi si aumenterebbe il ventaglio di strumenti di pagamento a disposizione di questi ultimi, cosa che porterebbe appunto ad un aumento della velocità e del numero stesso degli scambi, con relativa ricaduta positiva sul PIL. 
 
Moneta fiscale 
Banca d’Italia, già da mesi, si è affretta a pubblicare un report sostanzialmente negativo sull’applicazione di tali strumenti di “moneta fiscale”, sottolineando come tali certificati non sarebbero appunto legalmente equiparabili alla moneta e che, perciò, non si vedrebbe come possano essere usati dai privati come mezzi di pagamento. 
Resta che la critica di Banca d’Italia sia di una miopia colossale, dal momento che la stessa Banca d’Italia sottolinea che solo il circolante (cioè le banconote emesse) hanno il pieno potere di svolgere la funzione di mezzo di pagamento, non potendo essere rifiutate da un creditore come soddisfazione del rapporto in essere. Per questo, è lecito domandarsi come mai, invece, la legislazione vigente ponga dei limiti quantitativi all’accettabilità dei pagamenti in contanti che, secondo Banca d’Italia, sarebbero l’unico mezzo definibile strettamente come moneta. Inoltre, sappiamo molto bene come il circolante risulti impiegato solo per una piccola quota dei pagamenti regolarmente svolti tra privati. 
L’impiego di carte di credito, carte di debito, assegni, gli stessi bonifici di C/C, altro non sono che l’attestazione di esistenti rapporti di debito e credito tra le controparti; non si vede perciò alcuna difficoltà al fatto che dei privati scelgano liberamente di accettare uno strumento attestante un credito fiscale verso lo Stato come strumento di pagamento. 
 
Il parametro 
Per quanto riguarda, invece, la proposta di scorporo dei 250 miliardi dal calcolo del rapporto deficit/PIL, come detto non si tratta di non pagare il debito pubblico dovuto alla BCE (cosa, questa sì, che sarebbe rivoluzionaria), ma più modestamente di non tenerne conto per il calcolo del famoso parametro del 3%. 
Una tale misura, che andrebbe necessariamente condivisa con le altre nazioni UE, non modificherebbe in alcun modo i rapporti esistenti tra singoli Stati e Governi e la BCE, visto che i pagamenti effettuati dai governi in contropartita dei titoli di debito pubblico acquistati dalla BCE continuerebbero in modo invariato. 
Semplicemente tale scorporo allenterebbe i vincoli imposti dai trattati in tema di austerità fiscale, rendendo “accettabile” che un singolo Stato spenda di più, dal momento che la base per il calcolo del deficit sarebbe ridotta. 
La vera proposta rivoluzionaria, come abbiamo detto, sarebbe stata invece rimettere in discussione la legittimità stessa dei pagamenti effettuati dallo Stato nei confronti della Banca Centrale. 
 
Un esempio 
Come dicevo più in su, parlando di Minibot e scorporo del debito pubblico: proposte economiche, buone ma non rivoluzionarie, che tanto scandalo hanno destato e destano, formulate dal responsabile economico della Lega, Claudio Borghi Aquilini, riguardo all’emissione di minibot e allo scorporo del debito pubblico rispetto ai parametri imposti da Maastricht, dai signori tedeschi che tanto ci stanno sfottendo. 
Affrontando tale tematica non si può però non menzionare, come caso principe, il miracolo economico tedesco degli anni Trenta operato dal geniale governatore della Reichsbank e ministro Hjamlar Schacht del Terzo Reich nazionalsociaista. 
Il piano Schacht, partendo dalla constatazione che la crisi dell’economia tedesca era dovuta non a debolezze interne quanto a vincoli internazionali, come gli iniqui pagamenti dovuti secondo i trattati di Versailles e il ritiro dei capitali americani avvenuto a seguito della crisi del ’29, e che, quindi, in Germania esisteva un’enorme massa di attività produttiva inespressa (guardassero in casa loro) concluse che l’economia tedesca potesse essere rimessa in moto, più forte che mai, tramite un’operazione di politica monetaria. 
 
Come hanno fatto? 
Si trattava, cioè, di finanziarie spesa produttiva, spesa per investimenti capace di produrre commesse per la potente ma inoperosa industria tedesca e i milioni di disoccupati volenterosi di rimettersi al lavoro. Tale spesa, in un sistema convenzionale, si sarebbe dovuta considerare spesa pubblica, in quanto le commesse, in ultimo, arrivavano da parte dello Stato, che quindi avrebbe dovuto emettere titoli di debito, cercare acquirenti privati dei propri titoli, ovvero venderli a banche estere – cedendo perciò parte della ricchezza nazionale all’estero – o presso banche private nazionali – che avrebbero comprato i titoli indebitandosi a loro volta presso la banca centrale – o direttamente presso la banca centrale, che avrebbe emesso nuova moneta con cui acquistare i titoli. 
Così facendo, però, sarebbe esploso il debito pubblico tedesco, dato che per soddisfare i pagamenti verso la Reichsbank avrebbe dovuto aumentare tasse e prelievi in modo da annullare gli effetti benefici della spesa appena contratta. 
 
E dunque? 
Schacht, tuttavia, consapevole che in un regime di fiat monetario, ovvero in cui le Banche Centrali emettono il denaro semplicemente stampandolo, senza ancorarne il valore e la capacità di emissione ad un parametro reale come l’oro (cosa che renderebbe la capacità di emissione da infinita a finita, a seconda delle riserve auree detenute dalla banca stessa), il valore della moneta non risiede in altro luogo se non nel valore delle attività produttive dell’economia di riferimento che la moneta è chiamata a rappresentare. 
Per questo un’operazione simile a quella messa in piedi dalla Repubblica di Weimar, che, nel momento di incapacità di pagare i vincitori delle riparazioni di guerra e a seguito della conseguente occupazione francese del bacino produttivo della Ruhr, aveva ritenuto opportuno pagare la propria spesa corrente con la stampa di moneta, avrebbe portato immediatamente all’iperinflazione a alla riduzione del denaro emesso a carta straccia. 
La moneta da sola non genera né valore né ricchezza, non essendo altro che un simbolo di un altro valore che deve essere esistente nell’economia. 
 
Come andò 
La moneta emessa da Weimar nel ’23 non rappresentava alcun valore perché era volta a “sostituire” la ricchezza che veniva alla Germania dalle attività della Ruhr con il valore nominale scritto sulle banconote. Valore, tuttavia, non (più) sorretto da alcuna realtà sottostante. 
Diversamente, nel caso in cui nell’economia esistano effettivamente capacità produttive inespresse, come nella Germania del ’33, la moneta può essere emessa ad libitum, poiché il suo valore rispecchierà i valori delle attività produttive implicite nel sistema che necessitano solo di essere riattivate. 
Emessa moneta ad libitum e senza debito per lo stato, le commesse necessarie per riattivare la produzione possono, in questo caso, essere svolte dallo Stato, senza emissione di debito, perché, come detto, finanziabili direttamente tramite accrediti (e non addebiti) della Banca Centrale via emissione di nuova moneta. 
La genialità del piano Schacht risiedeva, inoltre, nel non rendere palese tale operazione, in modo da non scuotere eccessivamente i mercati internazionali. L’emissione diretta da parte della Reichsbank di moneta sarebbe potuta essere fraintesa come un ritorno dell’iperinflazione e della stampa di moneta per il finanziamento corrente della spesa pubblica. Perciò si dotò di un intermediario, la Metallurgische Forschungsgesellschaft (o, abbreviata, MEFO), una società di capitali privati, per quanto priva di reale operatività economica, che accreditava alla imprese titoli (o “effetti MEFO”), di fatto delle cambiali di pagamento, convertibili in denaro e garantiti dalla Reichsbank. 
 
MEFO 
Il fatto che i MEFO fossero concessi solo a imprese private in pagamento di merci e servizi garantiva che l’emissione di tali strumenti fosse destinata a finanziare non la spesa corrente dello Stato ma appunto una spesa per investimenti, ovvero quella spesa capace di smuovere la capacità produttiva inespressa. Che fossero veri e propri titoli di credito, o degli accrediti diretti (pur tramite la società di comodo MEFO) svolti dalla Reichsbank a favore dei detentori era rafforzato dal fatto che addirittura garantissero un tasso d’interesse positivo del 4%. In tal modo i possessori erano invogliati ad accettarli e a non portarli immediatamente allo sconto in cambio di marchi presso la Reichsbank. Nei fatti, tuttavia, assumevano il ruolo di un titolo di “credito pubblico” anziché di un titolo di debito pubblico. 
Formalmente, come detto, l’emittente non era lo Stato, ma la società MEFO, eppure logicamente, vista la natura puramente fittizia della società, il ruolo della MEFO potrebbe essere svolto tranquillamente dal Ministero del Tesoro di uno Stato che decida, quindi, di emettere titoli di credito a favore dei propri imprenditori, garantiti e convertibili in moneta presso la propria Banca Centrale, la cui contropartita in valore sarebbe racchiusa solamente nell’aumentato valore delle attività produttive generate dall’emissione del titolo stesso e non in un’altra posta contabile. 
 
Concudendo 
In sintesi, per riprendere le parole dello stesso Schacht: Le condizioni alle quali l’applicazione del sistema può essere effettuata senza danno non sussistono sempre. Sussistevano in Germania nel periodo della depressione economica degli anni Trenta, quando mancavano del tutto le scorte di materie prime, le fabbriche e i depositi erano vuoti, le macchine erano ferme e sei milioni e mezzo di lavoratori erano disoccupati. Non si aveva a disposizione neppure capitale liquido risparmiato da poter investire. Con una produzione tanto limitata anche la produzione di nuovo capitale era evidentemente impossibile. Soltanto quando le inoperose ma ingenti forze produttive furono rimesse all’opera, fu possibile una rapida formazione di capitale. Questo capitale “sperato” fu, nell’operazione MEFO, anticipato dal credito. Mancando la produzione che con questo credito era stata avviata, l’esperimento MEFO sarebbe fallito. Il sistema MEFO non poteva essere un “perpetuum mobile”.  
Raggiunta la piena occupazione ogni altra concessione di credito avrebbe portato a eccedenze di circolante e all’inflazione. 
 
Tant'é! 
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