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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Il Parolaio: Il Punto del fine m
Il punto di fine mese: Ne parliamo un po'? 
di Ninni Raimondi
 
 
         
 
Manovra, è scontro tra M5S e Pd sull’aumento dell’Iva 
Il governo giallofucsia è spaccato sull’aumento dell’Iva in vista della legge di Bilancio. “L’Iva non può aumentare, né nell’aliquota minima, né nell’intermedia, né in quelle più alte”, è la posizione del capo politico del M5S Luigi Di Maio, intervenuto a Non è l’Arena. Il ministro degli Esteri inoltre ha assicurato che in manovra ci sarà anche il salario minimo. Ma soprattutto ha sottolineato come non si fidi ancora dell’alleato di governo Pd: “Il tema è la prova dei fatti. Se il 7 tagliamo i parlamentari, sarà la prima prova di fiducia, se non aumenta l’Iva sarà la seconda prova di fiducia“, ha chiarito Di Maio. “Questo governo si è messo in testa di realizzare delle cose, ma tra di noi non è cambiato quello che noi pensiamo del Pd e quello che loro pensano di noi”, ha sottolineato. Lo scontro è arrivato al vertice di maggioranza di ieri sera a Palazzo Chigi, oltre a lo stesso Di Maio e al premier Giuseppe Conte, c’erano il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, Teresa Bellanova, capodelegazione di Italia Viva, Dario Franceschini (Pd) e il ministro Roberto Speranza (LeU). E proprio Franceschini è andato all’attacco: “Vedo che poco prima della riunione a Palazzo Chigi, Di Maio ha annunciato in modo ultimativo in tv una serie di posizioni sulla legge di Bilancio e su molto altro”, ha detto. “Cose anche interessanti che credo impegnino il suo movimento, ma di certo non impegnano l’intera maggioranza“, ha sottolineato. 
 
Gualtieri: “Il governo non ha ancora presentato nessun piano sull’Iva” 
Dal canto suo, Gualtieri assicura che è ancora prematuro discutere dei dettagli della manovra: “Il governo non ha ancora presentato nessun piano sull’Iva”, ha spiegato nel pomeriggio, “L’orizzonte non è la Nadef (la nota di aggiornamento del Def, ndr) ma la manovra. Invito tutti alla calma“. Ma si parla già di una legge di Bilancio da 30 miliardi. A tal proposito, sul fronte del deficit, “forse è meglio – ha spiegato Gualtieri alla trasmissione di Lucia Annunziata su Rai3 – non dichiarare il 2,4% e poi fare il 2,04% e nel frattempo avere una impennata dello spread che pagano tutti e collocarsi in mezzo dall’inizio senza turbative, quindi è una saggia via di mezzo che noi percorreremo”. Ma intanto sale la tensione tra dem e M5S. “Sicuro che il Pd non arretrerà”, la reazione dell’ex presidente del Pd, Matteo Orfini. Immediata la replica pentastellata: “Siamo già in marcia per bloccare l’aumento dell’Iva, avviare un piano per proteggere l’ambiente e tagliare i parlamentari”, ha precisato il deputato Michele Sodano. 
 
Renzi: “Aumento Iva è uno schiaffo ai consumatori” 
Chi a suo modo si schiera con i 5 Stelle è il leader di Italia Viva: “Abbiamo fatto un Governo per mandare a casa Salvini e per non aumentare l’Iva. Da noi zero polemiche su ministeri, sottosegretari, sul passato. Ma aumentare Iva è schiaffo ai consumatori, specie ai piu’ poveri. E porta alla recessione. Ecco perché Italia Viva è contro l’aumento dell’Iva“. Così Matteo Renzi su Twitter. 
Insomma, i giallofucsia sono in alto mare e non sarà facile per loro trovare la quadra sulle politiche economiche, viste le ampie differenze nell’approccio e le rispettive priorità. 
 
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Austerità, lotta al contante e aumenti Iva: ecco il menù della manovra 2020 
L’accordo sul deficit ancora non c’è. La riserva verrà sciolta lunedì in consiglio dei ministri, in attesa della nota di aggiornamento al Def che vedrà la luce nei prossimi giorni. Da lì potremmo iniziare a capire i contorni della manovra finanziaria che il governo intende proporre per il 2020. Alcune indiscrezioni già trapelate permettono comunque di tracciare un primo quadro d’insieme. 
 
Deficit fotocopia 
Il primo punto riguarda il deficit previsto per l’anno venturo. E si parte con una sorpresa: nonostante una presunta credibilità in sede Ue, Bruxelles non sembra disposta ad offrire all’Italia particolari concessioni. 
Le cifre circolari in questi giorni, d’altronde, non lasciano spazio a entusiasmi: si va dal 2,1 al 2,3%, una sciocchezza in più rispetto all’1,9% che si prevede di toccare quest’anno. Una manciata di miliardi aggiuntivi utili forse a sterilizzare le clausole di salvaguardia sull’Iva e ad iniziare ad “aggredire” il cuneo fiscale sul lavoro, cavallo di battaglia M5S. E basta: alla faccia del “vento cambiato” e dello “stop all’austerità” di cui ha recentemente parlato il premier Conte. 
 
Aumento Iva con la scusa del contante 
Il grande spauracchio è proprio l’imposta sul valore aggiunto. Per evitare il ritocco automatico all’insù servono 23 miliardi per il 2020. Obiettivo evitare che l’Iva agevolata al 10% possa salire all’11,5 e quella ordinaria del 22 al 24,2%. L’aumento, tuttavia, potrebbe esserci comunque seppur mascherato sotto due forme. 
La prima idea sul tavolo è quella dello sconto per chi sceglie di pagare con strumenti elettronici, nella convinzione (già smentita dai fatti) di recuperare risorse dall’evasione, con il fantasmagorico obiettivo di raggranellare almeno 5 miliardi. Numeri e logica alla mano, di fatto un aumento per chi intende pagare in contanti. “Non sembra una proposta mirata ad incentivare alcuni acquisti fatti con la moneta elettronica, ma un aumento generalizzato dell’Iva su tutti i beni, salvo lasciare l’imposta invariata su alcuni di essi. Parliamoci chiaro, il vero scopo è dare una narrazione politica al fatto che si stanno aumentando le aliquote anche se fino ad oggi è stato detto che non si sarebbe fatto”, ha commentato l’ex sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti. 
In secondo luogo, in manovra il governo starebbe pensando ad una rimodulazione complessiva dell’imposta. Si tratterebbe, in sostanza, di riordinare la tabella delle attuali aliquote, tagliando ad esempio l’Iva sulle bollette di luce e gas ma aumentandola su altri beni o servizi. Un gioco delle tre carte, praticamente. 
 
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Pernigotti: il made in Italy non può essere difeso dai turchi 
Il destino dei dipendenti della Pernigotti torna ad essere appeso ad un filo. È notizia di questi giorni che la proprietà turca della storica azienda dolciaria alessandrina ha comunicato alla cooperativa torinese Spes il recesso dal contratto preliminare per la cessione del comparto cioccolato-torrone. Tutto è avvenuto a tre giorni dalla scadenza prevista per la firma dei contratti che dovevano rilanciare lo storico stabilimento di Novi Ligure. 
 
La crisi della Pernigotti 
Per comprendere quanto è avvenuto è necessario fare un passo indietro. L’azienda negli anni ottanta e soprattutto negli anni novanta vive un momento di grande crisi. La famiglia Pernigotti cede prima la Sperlari agli americani della H.J. Heinz Company. Poi l’intera azienda passa nelle mani della famiglia Averna. Nel 2013 lo storico marchio novese finisce nelle mani dei turchi della famiglia Toksöz. 
I nuovi acquirenti riescono a bruciare una storica eccellenza italiana (l’azienda fu fondata da Stefano Giuseppe Pernigotti nel 1860) in soli 5 anni. In quel lustro la gestione fu pessima. A detta dei rappresentanti dei lavoratori: “Appena arrivata, la nuova proprietà aveva promesso il rilancio affiancando nuove produzioni ai dolci per le ricorrenze. Invece la Pernigotti ha sempre chiuso in perdita, con un continuo avvicendamento di amministratori delegati e di piani industriali”. 
Pertanto, nessuno si può meravigliare se nel 2018 Il gruppo turco Toksöz, tramite il suo legale, annuncia ai sindacati la chiusura dello stabilimento di Novi Ligure. Fu una vera e propria doccia gelata per i dipendenti. A rischiare il posto di lavoro cento persone sui quasi 200 dipendenti dell’impresa sparsi tra la fabbrica novese e gli uffici di Milano. I turchi volevano smantellare la parte produttiva mantenendo il marchio e la rete commerciale dei piemontesi. In pratica prodotti fatti in Turchia potevano essere venduti facendo leva sulla forza del marchio italiano. Il clamore mediatico di questa vicenda fece desistere il gruppo Toksöz dalle sue intenzioni. Almeno per il momento. 
 
Cosa prevedeva l’accordo 
E veniamo ai giorni nostri. Lo scorso agosto Luigi Di Maio riesce a strappare un accordo al gruppo asiatico. L’ex ministro del Lavoro annunciò che non ci sarebbero stati esuberi: “Chi lavora per un marchio e lo rende grande nel mondo non può essere licenziato. I dipendenti continueranno a lavorare tutti, sia per la Pernigotti che per altri marchi, così possono aumentare anche i posti di lavoro”. 
L’intesa si basava su due accordi. Il primo per la cessione del marchio “Maestri gelatieri” e per le relative strutture commerciali (21 dipendenti) e produttive (15) con inizio produzione dal 1 ottobre 2019. Il secondo prevede(va) la reindustrializzazione della produzione di cioccolato e torrone. Secondo fonti vicine ai sindacati potrebbe toccare ad un unico soggetto aziendale (una newco) la gestione dell’attività produttiva Novi. Il grande successo del ministro Di Maio dopo solo un mese si è rivelato un flop. Vediamo perché. 
 
Nessun lieto fine 
Il piano di salvataggio fortemente sostenuto dal Mise sembrava andare avanti spedito. Tuttavia non mancavano i cattivi presagi. Era saltato l’incontro tra la proprietà turca e l’imprenditore Giordano Emendatori. Stessa sorte per anche l’accordo che avrebbe dovuto permettere il salvataggio del ramo aziendale che produce gelati. 
“Avevamo capito, pur non ricevendo nessuna informazione ufficiale, che l’accordo tra Emendatori e Pernigotti fosse gravemente compromesso – ha dichiarato all’agenzia Ansa il presidente della cooperativa Spes, Antonio Di Donna – ma speravamo che si trovasse una soluzione e che comunque l’accordo tra Pernigotti e Spes, non avendo evidenziato criticità, si potesse chiudere nel rispetto degli impegni sottoscritti”. 
Oggi l’azienda di Novi Ligure si trova nuovamente in una situazione di stallo non potendo riavviare la ripartenza della produzione scongiurando l’esubero dei dipendenti. La Pernigotti ha rescisso il contratto preliminare con la Spes di Torino a pochi giorni dal 30 settembre, giorno fissato per la firma del definitivo. Ciò significa che tutta l’operazione di reindustrializzazione, stando a quanto sostiene la cooperativa sociale torinese interessata a produrre cioccolato per conto dei fratelli Toksoz, è saltata. Da un punto di vista occupazionale rischiano il posto di lavoro circa un centinaio di dipendenti. 
Non è, però, solo questo il problema. Secondo il presidente di Coldiretti Ettore Prandini “la crisi di Pernigotti è il risultato del circolo vizioso della delocalizzazione del made in Italy”. Purtroppo anche in questo caso la difesa dell’interesse nazionale è stata sacrificata nel nome del libero mercato con la grave complicità della nostra classe dirigente. 
 
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Cittadinanza ai figli degli immigrati: ecco lo ius soli targato Pd-M5S 
Non ci sono riusciti con lo ius soli, ci riprovano con lo ius culturae. Ma la sostanza non cambia. A mutare è solo l’assetto del governo, che pur mantenendo uno dei protagonisti in campo (il M5S) ha decisamente virato a sinistra. Per la gioia di Laura Boldrini – recente transfuga verso il Pd – e sodali, Papa Francesco in primis, che possono lanciare di nuovo la loro crociata per la cittadinanza aperta a tutti. 
 
Ritorna lo ius soli 
La trattativa, come previsto, si snoda attorno alla decurtazione dei parlamenti. Meno seggi tra Camera e Senato per accontentare le richieste grilline, in cambio lo ius soli caro a Pd e LeU. In quest’ordine. Se il taglio degli scranni è stato calendarizzato, a breve lo sarà anche la riforma della cittadinanza. La quale, alla Camera, già scalpita in commissione Affari Costituzionali dove il suo esame inizierà il prossimo 3 ottobre. 
Il testo riprende quanto messo nero su bianco da LeU lo scorso autunno. Il relatore era Roberto Speranza, oggi divenuto ministro nel governo giallofucsia. Nuovo relatore sarà Giuseppe Brescia del M5S, con Laura Boldrini prima firmataria della proposta che prevede la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati che abbiano concluso un ciclo di studi in Italia, a prescindere dal luogo di nascita. Le maglie di questo “ius culturae”, dunque, potrebbero persino essere più larghe rispetto allo ius soli sul quale si era dibattuto al termine della scorsa legislatura. 
 
Esulta la sinistra 
Il tema, pur essendo estremamente divisivo stando ai sondaggi (i quali non sono univoci ma tendono ad escludere che la maggioranza degli italiani siano d’accordo), trova invece piena sintonia nelle frange di sinistra dell’esecutivo. 
“Se per tagliare i parlamentari ci vogliono solo 2 ore, come dice spesso Di Maio – ha spiegato l’ex presidente del Pd e deputato Matteo Orfini – per fare lo ius soli ci vogliono solo pochi giorni. Pochi giorni per restituire un diritto negato a tante persone”. Parole alle quali si è accodato anche Matteo Renzi, che con la sua neoformazione Italia Viva rilancia: “La battaglia sullo Ius Soli non può essere una battaglia su cui si cambia idea, a seconda dei sondaggi”. 
 
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Archibugi: “Difendo il partito di Bibbiano, i bambini non sono dei genitori” 
“Difendo il partito di Bibbiano, i bambini non sono dei genitori ma dello Stato”. Parola di Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice da sempre schierata a sinistra, che ai microfoni di Circo Massimo, su Radio Capital, spiega così la sua visione delle cose riguardo alla famiglia e agli affidi. Una dichiarazione pesante, che si presta a molte interpretazioni ma che lascia in ogni caso attoniti. “La famiglia è tante cose – prosegue la Archibugi – tante quanti sono gli esseri umani, ma arriva anche ad aberrazioni. Tante volte è stato un bene strappare i bambini dalle famiglie, perché le famiglie possono essere anche un qualcosa di sinistro”. 
Con tutta evidenza la compagna regista non ama troppo il concetto di famiglia, che forse a suo avviso è una sovrastruttura borghese. E’ indubbio che esistano casi di violenza in famiglia e situazioni inaccettabili per la crescita di un bambino, ma è altrettanto sconcertante sottolineare soltanto questi casi (utilizzando pessime locuzioni come “strappare i bambini”)  senza spendere una parola per la gran parte delle famiglie che rappresentano una colonna portante della società. 
 
Il senso delle parole 
“Io difendo il partito di Bibbiano, io difendo come idea il fatto che lo Stato possa decidere su dei bambini. E’ un principio dello Stato di diritto dire che il bambino non è dei genitori”, ha specificato poi la Archibugi. Ecco, prendere le difese del cosiddetto “partito di Bibbiano” è forse l’affermazione più grave, a prescindere dalla questione dello Stato legittimato a intervenire in alcune situazioni al limite. Perché quel sistema di affidi, in quel preciso frangente, ha dato vita a mostri aberranti. 
Non si tratta ovviamente di condannare in toto le istituzioni che provvedono, quando è necessario e soltanto dopo accurate indagini a riguardo, ad affidare i bambini a case famiglia o ad altre famiglie. Si tratta di capire che il caso di Bibbiano, e purtroppo non è l’unico, rappresenta una vergogna nazionale. Per questo va condannato senza giri di parole, proprio perché non si ripetano certe aberrazioni. 
D’altronde però la compagna regista non è nuova a esternazioni fuori luogo. Due anni fa, ad esempio, intervista dall’Huffington Post, se ne uscì così: “Io non voglio dire che l’utero in affitto sia giusto o sbagliato. Voglio dire che non mi sconvolge questa richiesta. E vorrei che se ne parlasse per quello che veramente è: un cambiamento antropologico, che piaccia o non piaccia, nel nostro modo di vivere. La civiltà si evolve”. La grande conquista rappresentata dall’utero in affitto. 
 
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Rischi economici e sociali: l’esempio dell’immigrazione cinese 
Fra le principali caratteristiche dell’immigrazione che si sta verificando in  Europa vi sono non solo la presenza delle mafie che ne gestisce il movimento incrementando il proprio potere economico, ma soprattutto dobbiamo prendere in considerazione l’indolenza dei Paesi di fronte all’ingente flusso migratorio, indolenza determinata sia dalla incapacità di porre in essere una pianificazione del problema migratorio sia dalla incapacità politica di risolvere in modo autorevole una questione di tali dimensioni. L’assenza, almeno fino a questo momento, di una linea di condotta comune da parte delle nazioni comunitarie e i contrasti all’interno dell’Unione Europea non hanno fatto altro che rafforzare l’instabilità politica, rafforzare la criminalità organizzata, incrementare i profitti delle Ong e delle associazioni che accolgono gli immigrati sul proprio territorio e consolidare il consenso politico delle formazioni pro immigrazione che se ne servono a scopo elettorale. 
Da un punto di vista strettamente storico dobbiamo prendere atto che l’ondata di immigrazione cominciata dal 2015 è completamente diversa da quelle del passato. Non è difficile prevedere che, date le dimensioni di questo nuovo fenomeno, le nuove migrazioni determineranno un cambiamento enorme nell’Europa occidentale. 
 
L’esempio dell’immigrazione cinese 
A tale proposito possiamo fare un parallelo con quella cinese che raggiunse il proprio apice tra la fine della guerra del Vietnam e la fine degli anni ’70 grazie alla politica delle porte aperte promossa da Deng Xiaoping. L’immigrazione cinese si concentrava prevalentemente sull’attività della ristorazione, sull’attività di importazione o esportazione di merci, sulla fabbricazione di beni, sulla contraffazione dei prodotti di lusso. Tutte attività strettamente intrecciate anche a quelle legali e diventa arduo individuare una linea di separazione netta. 
Complessivamente l’immigrazione cinese è circoscritta a quartieri ben definiti e, nel giro di poco tempo, almeno in Europa ha avuto un aumento notevolissimo poiché è passata dalle 600MILA persone del 1980 ai 2 milioni circa solo nel 2007 creando vere e proprie Chinatown o enclave cinesi in Italia – per esempio a Prato e a Milano – che sono ancora in espansione. 
In modo particolare, contrariamente a quanto si pensa la comunità cinese  è in generale poco disponibile all’integrazione e soprattutto l’opinione pubblica sottovaluta il fatto che questa immigrazione ha certamente degli stretti legami non solo con le Triadi ma anche con la nuova via della seta perché contribuisce alla penetrazione nel tessuto economico italiano ed europeo. 
 
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Le aziende italiane a più alto fatturato (e che continuano a crescere) 
La stima “crescita zero”, attribuita all’Italia è ingiustamente scoraggiante. Nel nostro paese esistono infatti, e godono anche ottima salute, molte grandi aziende che dimostrano come anche in questa terra chi fa davvero impresa può crescere e prosperare. Stupirà saperlo, ma sono infatti ben 164 in Italia le aziende che superano il miliardo di euro di fatturato. 
 
I settori a più alto fatturato in Italia 
I dati ci confermano come nel nostro paese alcuni settori continuino a essere determinanti nel trainare la nostra economia. Tra questi svettano quello manifatturiero, che continua nella sua crescita arrivando nel 2017 a incidere del 19,6% sul PIL del paese, e il settore finanziario, con un’incidenza del 22,6%. In crescita anche il Petrolchimico, che arriva a coprire il 14,4%. Leggermente ridimensionati invece i numeri di Energetica e Commercio, insieme al settore Trasporti, mentre è stazionario il Trattamento Metalli. 
In questi rami dunque non mancano in Italia aziende sane, capaci di produzioni di qualità e dai fatturati di tutto rispetto. Attenzione però, non è sempre bene fidarsi ciecamente: quando si vogliono intrattenere rapporti commerciali con qualcuno è sempre meglio accertarsi della sua solidità controllando il bilancio dell’azienda tramite servizi specializzati come quelli di Icribis. In ogni caso, è bene sapere che anche in Italia ci sono molte aziende che si affacciano positivamente sul mercato, sia sul piano commerciale che su quello delle partecipazioni. 
 
Le 10 imprese a più alto fatturato in Italia 
Vediamo quindi quelle che sono attualmente i fiori all’occhiello dell’imprenditoria italiana. 
 
EXOR SpA 
143.430 milioni di euro è il fatturato della EXOR, che si occupa di investimenti ed è detenuta per il 52,99% dalla Famiglia Agnelli. EXOR è un’Azienda italiana di diritto olandese ma con la sede principale a Torino, dove conta ben 302.562 dipendenti. 
 
Assicurazioni Generali SpA 
89.204 mln è il fatturato della Assicurazioni Generali, terza compagnia mondiale di Assicurazioni, dopo Allianz e AXA. Ha a libro paga 71.327 dipendenti ed è attiva in Europa occidentale, Estremo Oriente e Nord America. 
 
Enel SpA 
Il fatturato di Enel ammonta a 72.664 mln e l’Azienda conta attualmente 62.080 dipendenti. Multinazionale nel settore dell’energia, Enel da Ente pubblico è diventata Azienda Privata nel 1999. 
 
Eni SpA 
L’Ente Nazionale Idrocarburi fattura 70.980 milioni ed ha 33.866 dipendenti. Azienda di Stato dal 1953, è stata convertita in SpA nel ’92, ed è uno dei maggiori gruppi petroliferi del mondo. 
 
Poste Italiane SpA 
Poste Italiane SpA fattura 33.350 milioni ed è un’azienda privata dal 1998. Quotata in Borsa dal 2015, il suo pacchetto di maggioranza oggi appartiene alla Cassa Depositi e Prestiti. Conta attualmente 137.971 dipendenti. 
 
Unicredit SpA 
Nata dalla fusione di vari gruppi bancari, Unicredit fattura 27.501 milioni, ha 91.952 dipendenti ed è attiva in 18 paesi. 
 
Telecom Italia SpA 
La Telecom nasce dalla SIP nel 1994, fattura oggi 19.336 milioni ed ha 61.229 dipendenti. Il suo settore è quello delle telecomunicazioni sia in Italia che all’estero. 
 
Intesa Sanpaolo SpA 
Il Gruppo Intesa fattura 18.871 milioni e ha sul libro paga ben 96.892 dipendenti collocati nelle sue 4.500 filiali. È uno dei principali gruppi bancari in Europa, con un totale di 11,9 milioni di clienti. 
 
Unipol Gruppo Finanziario SpA 
Il Gruppo Unipol Finanziario fattura 14.662 milioni ed ha 14.188 dipendenti. Si occupa di polizze assicurative e finanziarie ma è impegnata anche all’interno del settore immobiliare. 
 
UnipolSai Assicurazioni SpA 
UnipolSai, controllata al 63% dal Gruppo Unipol, è nata a Bologna nel 2014 ed ha oltre 10 milioni di clienti. Fattura 14.257 milioni ed ha 7.480 collaboratori. 
Nonostante il periodo di crisi vissuto dal nostro paese, esistono comunque aziende che riescono a prosperare e a crescere. 
 
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Non c'é male vero? 
Un caro saluto al mese di Settembre. E' stato un piacere 
 
Ninni Raimondi 
 
 30 Settembre 2019   Licenza Creative Commons
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