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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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L'Evoluzione del sistema politico istituzionale 
di Ninni Raimondi
 
L'Evoluzione del sistema politico-istituzionale 
 
Premessa 
Il sistema politico-istituzionale italiano è caratterizzato da una sua sostanziale continuità pur con l’intersecarsi di significative cesure sia per quanto riguarda i profili formali (dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana) che quelli sostanziali (a costituzione formale invariata). 
Agli albori dell’unità, il sistema è caratterizzato dalla presenza dello Statuto Albertino che rimarrà, almeno formalmente, la costituzione nazionale fino alla Assemblea Costituente del 1946-1947. 
Il disegno dello Statuto, nel suo assetto istituzionale complessivo, resterà invariato fino all’avvento del Fascismo ma già a fine ottocento subirà profonde modifiche con l’affermarsi di una progressiva democratizzazione. Innovazioni sensibili si avranno quanto al regime dei diritti costituzionali, con una liberalizzazione dell’originale disegno statutario seguita da una forte battuta d’arresto durante il fascismo. 
La costituzione del 1948 salverà lo schema della separazione dei poteri, propria della precedente struttura costituzionale, pur col cambiamento radicale della forma monarchica in repubblicana, con l’introduzione della Corte Costituzionale e con la regionalizzazione. 
Una completa rottura col passato si avrà solo nella concezione dei diritti fondamentali orientati dal principio di eguaglianza sostanziale e da una forte connotazione solidaristica. 
I successivi sviluppi del regime politico-costituzionale saranno segnati da alterne fasi caratterizzate da momenti di sviluppo e da momenti di stagnazione ma fortemente influenzati dall’ingresso dell’Italia nelle organizzazioni europee. Del tutto significativo, e probabilmente non sufficientemente sottolineato, sarà l’abbandono della esclusività del principio proporzionale nella legislazione elettorale nel 1993, sostituito da un maggioritario corretto, che aprirà la strada al primo tentativo problematico di bipolarizzazione con alternanza. 
 
Lo Statuto 
Dal 1861 la costituzione vigente in Italia è stata lo Statuto Albertino, cioè la costituzione concessa dal re di Sardegna Carlo Alberto che la aveva firmata e promulgata il 4 marzo 1848 a valere come «legge fondamentale perpetua e irrevocabile della monarchia». Lo statuto fu esteso alle varie regioni italiane mano mano che si effettuarono le annessioni dopo la seconda guerra di indipendenza. Dopo la prima guerra mondiale fu esteso ai territori del Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia, Dalmazia e Fiume. 
Lo Statuto si era rivelato l’unica costituzione europea, ispirata ai principi del liberalismo politico del tempo, che non era stata revocata dopo il fallimento delle rivoluzioni quarantottesche nel momento del recupero reazionario da parte della generale restaurazione intervenuta anche negli stati italiani. E il non aver tradito l’impegno a dare una costituzione liberale insieme alla capacità di porsi come stato guida della unificazione nazionale furono gli elementi fondanti della forte legittimazione della dinastia sabauda del periodo risorgimentale che finirà per essere compromessa soltanto con l’accettazione del regime fascista.  
Si manifestò quindi una evidente continuità tra la fase sardopiemontese della dinastia sabuada e la fase italiana. E del resto nel 1861 il re assunse il titolo di re d’Italia, ma rimase pur sempre Vittorio Emanuele II (e non I) e la legislatura non fu la prima del nuovo regno bensì continuò a essere enumerata come la VIII. Continuità dunque nella successione dei titolari della corona e delle legislature parlamentari. Continuità dello Statuto che divenne la costituzione dello stato nazionale italiano. 
Lo Statuto, al pari di altre costituzioni del tempo, nasceva come costituzione di una «monarchia costituzionale». Prevedeva la separazione dei poteri, la garanzia dei diritti, la religione cattolica come unica religione dello stato e la tolleranza degli altri culti. Era previsto un parlamento bicamerale, col senato di nomina regia e la camera dei deputati elettiva. Il re aveva poteri sostanziali: non solo era titolare del potere esecutivo ma concorreva a quello legislativo tramite la sanzione delle leggi e la giustizia era amministrata in suo nome. Il governo era formato da fiduciari del re inizialmente responsabili verso di lui e solo nello sviluppo consuetudinario successivo politicamente responsabili verso la camera elettiva, essendo il re politicamente irresponsabile. 
 
Dalla monarchia costituzionale pura a quella parlamentare o pseudo parlamentare 
Immediatamente dopo la sua entrata in vigore lo Statuto operò seguendo il modello del governo parlamentare ma ciò non significò che il ruolo della istituzione monarchica non mantenesse il suo alterno peso nelle decisioni di governo. 
In linea di principio si ammette che la forma di governo superasse lo schema iniziale della monarchia costituzionale e si risolvesse rapidamente in parlamentare. Infatti pur permanendo la nomina regia dei ministri si affermò in via di consuetudine il principio della fiducia data al governo dalla camera elettiva. Il potere di decisione politica passò quindi dal re al governo e quest’ultimo era posto in grado di operare con la collaborazione della maggioranza parlamentare che lo appoggiava. 
Questa situazione non escludeva tuttavia il mantenimento di un ruolo politico primario della monarchia in materia di affari militari e rapporti internazionali, come pure non impediva in alcuni momenti della storia italiana un recupero del ruolo governante del re a scapito del governo. Questo stato di cose fu evidente in importanti circostanze. Si pensi alla decisione imposta dal re di entrare nel conflitto mondiale nel 1915. Inoltre il re mantenne costantemente il potere di nomina dei ministri della guerra, della marina, degli esteri. 
In realtà non sussistevano i presupposti per l’instaurazione di un governo parlamentare secondo il modello classico ispirato all’esperienza britannica, modello che pure esercitava la sua sicura influenza nella cultura costituzionale del tempo. Infatti, non esisteva la possibilità di immaginare la costituzione di partiti politici parlamentari, prima ancora che nel Paese, tali da consentire il funzionamento bipolare del sistema politico. E, in effetti, vi era la consapevolezza che soltanto una forte componente parlamentare maggioritaria intimamente legata al governo in contrapposizione a una forte opposizione parlamentare avrebbe consentito un fisiologico svolgimento del rapporto politico. Ma la situazione italiana era caratterizzata dalla assenza di partiti politici nazionali a causa della ristrettezza del suffragio legata alla lentezza del progredire della maturazione politica. La contrapposizione fra Destra e Sinistra indicava la presenza nella Camera dei Deputati di fazioni parlamentari di cui non era agevole distinguere in modo stabile i confini. E in una situazione di questo genere la maggioranza che appoggiava il governo si manifestava debole e di breve durata. Dal 1861 al 1922 si contano ventisei presidenti del consiglio per un totale di sessanta gabinetti ministeriali. La successione dei governi era quasi sempre conseguenza di dimissioni provocate da crisi extraparlamentari. 
Nei rapporti col parlamento in un quadro di debolezza delle fazioni parlamentari ebbe peso notevole il c.d. “partito di corte”, riunione informale di ministri e parlamentari coagulati dal proposito di appoggiare le scelte della corona. 
 
Per questo qualcuno ha parlato di forma di governo pseudo parlamentare  
L’istituzione governo per tutta la durata dello Statuto, prima dell’avvento del fascismo e della trasformazione del presidente del consiglio in capo del governo, fu un’istituzione debole. Tra l’altro il presidente del consiglio non era previsto nel testo formale della costituzione di allora e solo nel 1903 furono disciplinati i suoi poteri con legge ordinaria (Legge Zanardelli). Alla carenza di strumenti istituzionali si aggiungeva la debolezza politica: a causa dell’assenza di una sua maggioranza il presidente del consiglio si appoggiava di volta in volta alle fazioni parlamentari o al partito di corte. Dalla difficoltà di attuare il proprio indirizzo politico tramite iniziative legislative destinate a trovare l’appoggio di una maggioranza nasceva il ricorso alla decretazione governativa con forza di legge. I decreti erano deliberati dal governo ed emanati dal re ed erano assai frequenti i periodi in cui la legislazione parlamentare diveniva recessiva e prevalente la decretazione governativa (deliberazione dei pieni poteri per la guerra nel 1848, 1859, 1866, 1915 e ricorso allo stato d’assedio in diverse provincie in ripetute occasioni). 
 
Il trasformismo 
Quanto ora accennato agevola la comprensione del fenomeno del c.d. trasformismo, termine con cui s’indicava il passaggio dei deputati dall’una all’altra delle fazioni parlamentari, agevolato dal ricorso allo scrutinio segreto, come pure la costante presenza di tendenze consociative. Queste ultime ebbero un peso indiscusso e s’inquadrano nella già ricordata difficoltà di immaginare un funzionamento bipolare del sistema politico italiano. 
Una possibilità in tal senso sembrò prospettarsi nel 1876 al momento della sconfitta della Destra storica e del successo della Sinistra di Depretis che sosteneva un programma di ammodernamento del Pese (estensione del suffragio, istruzione obbligatoria, riforme fiscali). Ma anche in tali circostanze non si ebbe né un governo forte né un’opposizione della Destra forte. Nuovamente la conclusione furono soluzioni di tipo consociativo. La legge elettorale che prevedeva il sistema a doppio turno agevolava gli accordi trasversali fra le diverse componenti politiche con forme corruttive di scambio tra il primo e il secondo turno.  
E, in effetti, la situazione non fu mai lineare. Non vi fu una chiara evoluzione verso la forma del governo di gabinetto fondato esclusivamente sul raccordo maggioranza/governo con un ruolo esterno di garanzia della corona. Si ebbero piuttosto formazioni di governi basati su maggioranze disomogenee e raccogliticce in genere rivelatesi fragili e temporanee implicanti frequenti crisi di governo. Si ammette quindi che già allora l’assemblearismo costituiva una delle caratterisitiche del sistema politico. 
 
Dalla conservazione alla democratizzazione 
Lo Statuto fu la costituzione di uno stato liberale, dapprima censitario e oligarchico, democratico poi. Per comprendere il significato del suo progressivo sviluppo, pur nel permanere invariato del suo testo, sarebbe sufficiente ricordare l’evoluzione della titolarità del diritto di voto per la camera elettiva. Inizialmente (1848) si era previsto il sistema del collegio uninominale a doppio turno, con elettorato attivo di venticinque anni e passivo di trenta. Il voto era riconosciuto in base al reddito e alle imposte pagate. Gli iscritti alle liste elettorali rappresentavano l’1,57% della popolazione. Quindi (1882) il diritto di voto era riconosciuto al compimento del ventunesimo anno ai cittadini che sapessero leggere e scrivere raggiungendosi la percentuale del 6% della popolazione. Successivamente (1912) veniva esteso il voto agli analfabeti che avessero compiuto trent’anni e adempiuto gli obblighi militari. Circa un quarto della popolazione fu ammesso così al voto. Si parlò di suffragio universale ma in realtà le donne erano escluse dal voto e lo rimarranno fino alle elezioni dell’assemblea costituente del 1946. Un’ulteriore modifica estendeva il voto a tutti i ventunenni (1918) e quindi ai diciottenni richiamati alle armi e nello stesso periodo si passava dal sistema uninominale maggioritario allo scrutinio di lista proporzionale (1919). 
In pratica l’ampliamento del suffragio si accompagnò al profondo mutamento della situazione sociale e politica, al superamento del partito di notabili funzionante come comitato elettorale e all’affermazione del partito di massa. Soprattutto nel periodo in cui Giolitti fu presidente del consiglio (1901-1914) si verificò, senza variazioni formali dello Statuto, una significativa modifica della sua applicazione intesa a consentire la partecipazione all’attività politica di ceti in precedenza esclusi, tutelando il diritto di associazione, tra cui quello sindacale, riconoscendo il diritto di sciopero, ampliando l’interventismo pubblico a fini sociali. Fu rivalutato il ruolo del parlamento, la legislazione prese il sopravvento sulla decretazione d’urgenza, furono promosse importanti inchieste parlamentari. Dopo la pausa provocata dal primo conflitto mondiale l’attività politica riprese in una situazione di gravissima tensione sociale. Ormai l’azione dei partiti di massa caratterizzava la vita politica e parlamentare: partito socialista, da cui nasceva (1921) quello comunista, partito popolare e partito fascista (1919) prendevano il sopravvento sui tradizionali esponenti del liberalismo politico che erano stati protagonisti negli anni precedenti il conflitto. Le elezioni svolte sulla base della ricordata legge proporzionalista del 1919 fecero emergere una situazione di ingovernabilità in un clima di grave tensione che condusse alla nomina di Mussolini a presidente del consiglio (28 ottobre 1922).  
 
La continuità formale dello Statuto nella fase dello stato autoritario 
Alla fase della democratizzazione sopraffatta dalla confusa situazione politica maturata nel dopoguerra seguiva la fase autoritaria del fascismo (1925-1943) caratterizzata da una sistematica contestazione delle istituzioni statutarie, quali si erano venute sviluppando con l’affermarsi della monarchia parlamentare e del pluripartitismo, e dalla dichiarata esigenza di ripristinare l’autorità dello stato in un contesto politico incapace di esprimere una guida efficace per la società nazionale. Le leggi sulla difesa dello stato, di soppressione delle autonomie locali e sulla stampa, sulla disciplina dei rapporti di lavoro e infine sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo e sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, comportarono una profonda mutazione del sistema costituzionale statutario. Il processo di modificazione dell’organizzazione costituzionale in senso autoritario vide poi, dall’inizio degli anni trenta, una progressiva accentuazione della personalizzazione del regime. La tendenza all’emergere di una guida monocratica dello stato era evidente nell’unione personale in Mussolini delle funzioni di vertice del governo – che accentrava le attribuzioni di indirizzo e normazione parallelamente al depotenziamento e all’emarginazione del parlamento – e del partito unico, mentre il capo dello stato monarchico, pur rimanendo nel godimento formale delle sue prerogative, non metteva in discussione il ruolo dominante del capo del governo e del partito. Non è agevole individuare quali delle funzioni e garanzie fossero state eliminate o soltanto sospese e poste in uno stato di quiescenza a causa delle innovazioni introdotte dalla legislazione del fascismo. Ma per i poteri della corona è evidente la loro sospensione che giunse al suo temine il 25 luglio 1943 quando il re revocò il capo del governo dalle sue funzioni. 
 
Superamento dello Statuto ma continuità dello stato 
Col crollo del regime fascista e quindi con l’armistizio si apre nel 1943 una fase costituzionale transitoria che condurrà dopo alterne vicende all’Assemblea Costituente e quindi alla nuova Costituzione. 
Un decreto luogotenenziale (25 giugno 1944, n. 151) prevedeva l’elezione di una assemblea costituente che avrebbe anche deciso della forma istituzionale (monarchia o repubblica). Successivamente veniva istituita la Consulta nazionale, organo consultivo del governo, decretato il voto femminile, reintrodotto il sistema elettorale proporzionale simile a quello del 1919. Il decreto relativo al futuro ruolo della assemblea costituente veniva quindi sostituito da uno ulteriore che stabiliva di scindere la scelta istituzionale, da affidarsi a decisione popolare referendaria, dalla elezione della assemblea destinata a deliberare la costituzione che avrebbe dovuto sostituire lo Statuto (16 marzo 1946, n. 98).  
Tra il 25 luglio 1943 e il 1 gennaio 1948 si affermava in Italia una costituzione provvisoria, con la successione rapida di diverse fasi, caratterizzata dal parziale ripristino dello Statuto Albertino e dalla predisposizione di regole giuridiche precarie destinate a disciplinare l’ordinamento in attesa di nuove regole definitive e a predisporre tali nuove regole: i due decreti 151/1944 e 98/1946 contenevano puntuali e organiche prescrizioni in tal senso ma non erano le uniche fonti sostanzialmente costituzionali di quel periodo. In complesso il regime costituzionale provvisorio era destinato a saldare senza brusche soluzioni di continuità le varie fasi attraverso cui passò in quel periodo l’ordinamento italiano: i costituenti sarebbero stati, almeno giuridicamente, liberi di tracciare i lineamenti del nuovo ordine costituzionale ma nella fase di transizione si erano gradualmente poste le premesse del nuovo ordinamento precostituendo appositi procedimenti e organi.  
 
Quindi le fonti normative del periodo 1943-1946 possono essere lette come costituzione sostanziale, pur nella permanenza formale della Statuto, anche se temporalmente delimitata, e come predisposizione degli strumenti giuridici destinati a consentire lo svolgimento del referendum istituzionale e l’elezione della assemblea costituente in un quadro complessivo di continuità dell’ordinamento italiano, pur se nel cambiamento della forma di stato.  
A questo punto andrebbe anche aperta una disincantata riflessione sullo stato giuridico del Paese nel contesto internazionale del tempo. L’Italia era un paese privo di sovranità sottoposto al Governo militare alleato (AMG) e quindi alla Commissione alleata di controllo (ACC). L’articolo 107 della Carta delle Nazioni Unite consentiva alle potenze vincitrici una deroga al divieto di ricorso alla forza voluto in generale dalla stessa Carta proprio nei confronti dei paesi vinti, quali l’Italia, qualificati come “nemici”.  
 
Il trattato di pace era poi un trattato cui lo stato italiano non aveva concorso e che l’Assemblea costituente avrebbe dovuto semplicemente accettare, come in realtà avvenne. Il trattato era un atto che regolava lo status di una potenza debellata, arresasi “dopo aver capitolato senza condizioni”, come recitava il suo preambolo e quindi duramente trattata come parte sconfitta. E lo stesso trattato pretendeva di condizionare il futuro costituente italiano imponendogli di adottare un essenziale bill of rights (articolo 15). Aggiungasi che a causa della occupazione militare del territorio nazionale circa un milione di italiani non poterono votare per la Costituente. Non si votò nella provincia di Bolzano occupata dagli americani, né nell’intero XII collegio (Trieste, Fiume e Zara) sotto feroce occupazione jugoslava che rendeva semplicemente impensabile lo svolgimento delle elezioni. In tutto risultarono mancanti diciotto deputati costituenti. 
 
Pertanto la libertà di scelta del potere costituente poteva valere con riferimento alla sua non condizionabilità da parte delle precedente costituzione nazionale ma non con riferimento ai condizionamenti particolarmente incisivi effettuati dal diritto generale della comunità internazionale e da puntuali e particolari vincoli derivanti dal trattato di pace e dal regime di occupazione. Stando così le cose la disponibilità alle limitazioni di sovranità sarebbe stata espressa con l’articolo 11 della futura costituzione da un’Assemblea costituente in un momento in cui lo stato aveva, per essere eufemisti, una sovranità solo larvata. 
 
Il 2 giugno 1946 si svolse il referendum unitamente alle elezioni con metodo proporzionale per l’assemblea costituente. Il referendum manifestò la presenza di due orientamenti abbastanza equilibrati ma con una vittoria del voto favorevole alla repubblica. Le elezioni per l’assemblea costituente disegnarono i contorni di quello che sarebbe stato il sistema dei partiti caratterizzanti la politica italiana nei decenni seguenti: circa un terzo dei voti al partito cattolico (democrazia cristiana), circa un terzo ai partiti della sinistra (comunista e socialista), e il rimanente terzo ai diversi partiti minori di diverso orientamento tra cui quelli eredi della ideologia liberale. 
L’Assemblea iniziò i suoi lavori il 25 giugno 1946 e li terminò con la promulgazione della Costituzione il 27 dicembre 1947, Costituzione entrata in vigore il successivo 1 gennaio 1948.  
 
Le contraddizioni del compromesso costituente e la sua tenuta 
La Costituzione si poneva, a grandi linee, nell’alveo del costituzionalismo liberale, ma con significativi aggiornamenti che introducevano gli istituti dello stato sociale di diritto contemporaneo proprio di altri ordinamenti che seguivano gli sviluppi consolidati del costituzionalismo democratico dell’occidente europeo. La breve ma significativa esperienza dello stato autoritario provocava come reazione un orientamento dei costituenti favorevole a un sistema di ampie garanzie per i diritti dell’uomo e dei gruppi sociali. Ad un tempo era chiaro che non si poteva procedere a un semplice recupero delle istituzioni del liberalismo affermatesi prima del primo conflitto mondiale. Sarebbe del tutto parziale e fuorviante leggere il processo costituente come una semplice chiusura della parentesi autoritaria con la contestuale ripresa della democrazia precedentemente sospesa dal fascismo. In realtà non si può ignorare quello che era stato il processo di ampio rivolgimento prodottosi a livello mondiale negli anni del conflitto mondiale. La comunità internazionale era uscita profondamente ristrutturata.  
 
Da una parte riprendeva vigore il ruolo delle democrazie occidentali. Dall’altra, chiusa la fase dell’autoritarismo nazifascista, si consolidava in modo forte l’autoritarismo liberticida dell’impero sovietico che debordava su larga parte del continente europeo fino a lambire i confini italiani. L’Assemblea costituente lavorerà con alle spalle questa vistosa contraddizione, Quello che sarà definito il compromesso costituente aveva in controluce la consapevolezza che i valori liberali tradizionali e la democrazia sociale di ispirazione cattolica e socialista avrebbero dovuto convivere col patrimonio ideale del comunismo internazionale. Non è qui possibile insistere su questo gravissimo equivoco iniziale che condizionerà lo sviluppo costituzionale dopo l’inserimento dell’Italia nel blocco atlantico. 
I costituenti si mostrarono tendenzialmente uniti nella critica del precedente stato liberale e dello stato autoritario mentre si orientarono verso forme conciliative dei propri orientamenti ideologici e dei propri programmi per quanto riguardava la formulazione in positivo delle nuove regole costituzionali. Di qui la constatazione della natura compromissoria del patto costituzionale formalizzato nel testo infine votato e promulgato: orientamenti della componente cattolica, di quella marxista, di quella liberale, confluirono in un disegno che in molti casi appariva ai primi commentatori eccessivamente « programmatico » e sfumato nei suoi contorni normativi e che proprio per tale genericità di contenuto si manifestò in seguito idoneo ad adattarsi costantemente allo sviluppo della società italiana in rapido mutamento. 
 
La costituzione affermava il ruolo centrale della persona (principio personalista) e delle formazioni sociali (principio pluralista), il fondamento dell’autorità pubblica sul libero consenso dei governati e il governo della maggioranza nel rispetto dei diritti delle minoranze (principio democratico), la tutela giudiziaria dei diritti, unita alla giurisdizione costituzionale e alla rigidità della costituzione che ne rendeva disagevole la revisione (principio garantista), la assicurazione delle autonomie territoriali in un quadro unitario (principio di decentramento) l’inserimento dell’ordinamento italiano in un più ampio contesto internazionale (principio internazionalista). In complesso il lavoro dei costituenti si rivelò concorde sulla generalità del disegno che veniva delineandosi e senza insanabili fratture anche quando nel maggio 1947 il precipitare dei rapporti fra le potenze vincitrici nel conflitto conclusosi due anni prima portò alla drammatica divisione fra blocco occidentale in cui l’Italia si trovava inserita, essendo stata sottoposta alla tutela anglo-americana, e blocco orientale e tale evento provocò la fine della collaborazione fra i partiti che era iniziata nel 1944 con i governi del C.L.N. Venne quindi formato (23 giugno 1947) un gabinetto ministeriale sostenuto dalla coalizione fra democrazia cristiana e minori partiti (coalizione centrista) mentre partito comunista e partito socialista passavano all’opposizione. In quel momento i lavori preparatori in commissione erano terminati e l’assemblea aveva già approvato i principi fondamentali e la prima parte del testo. Tuttavia la collaborazione in assemblea fra partiti ormai duramente contrapposti nel paese non s’interruppe e il processo formativo non fu quindi compromesso. 
 
L’entrata in vigore della costituzione il 1° gennaio 1948 comportava tuttavia la vigenza di disposizioni transitorie destinate a consentire la piena attuazione delle prescrizioni del nuovo testo costituzionale. In particolare si dettavano regole destinate a consentire l’operare dell’ordinamento in attesa della adozione di definitive normative compatibili con la nuova costituzione. 
 
Di nuovo la forma di governo parlamentare: la continuità  
La forma di governo prevista era nuovamente quella parlamentare, sicuramente ispirata al modello prefascista ma con una razionalizzazione per quanto riguardava la disciplina della fiducia e della sfiducia. Il ruolo del vertice del governo era volutamente debole: il presidente del consiglio era più che altro un moderatore dell’insieme dei ministri venendo favorita al massimo la collegialità del consiglio. E del resto è pacifico che i costituenti volessero un governo debole. Un poco perché avevano alle spalle l’esperienza preoccupante del governo mussoliniano, un poco perché nessuna delle componenti forti dell’assemblea voleva corre il rischio di affidare poteri consistenti al governo ove si fosse trovata all’opposizione dopo le elezioni politiche che avrebbero seguito la Costituente. Si aggiunga che il sistema dei partiti si sarebbe rivelato particolarmente complesso e articolato e avrebbe avuto un’influenza determinante sul funzionamento della forma di governo (c.d. pluripartitismo estremo). Il che era dovuto al fatto che la volontà dei protagonisti della Costituente si era orientata in modo netto a favore di una legislazione elettorale basata in modo ossessivo sul proporzionalismo. Il principio proporzionale, scelto per le votazioni alla Costituente, e non formalizzato in costituzione, si sarebbe inesorabilmente ribaltato su tutte le leggi elettorali successive agevolando la frammentazione della rappresentanza e obbligando a restringere la governabilità negli spazi costrittivi delle coalizioni formate dopo le votazioni popolari.  
 
Il principio proporzionale come fondamento reale della politica avrebbe quindi influenzato profondamente l’attività del governo e del parlamento: l’impossibilità di far scaturire una maggioranza dalle elezioni portava all’esigenza di formare coalizioni, alla presenza di “delegazioni dei partiti” nel Consiglio dei Ministri, al potere di ricatto dei partiti minori della coalizione, alla fragilità delle coalizioni di governo e alle crisi extraparlamentari, e in caso di insufficienza della maggioranza a soluzioni consociative. Insomma, si ripeteva la criticità del parlamentarismo prefascista e si constatava l’impossibilità di una forma di governo maggioritaria o di gabinetto basata sulla bipolarizzazione. La pratica avrebbe quindi clamorosamente disatteso il noto ordine del giorno Perassi (4 e 5 settembre 1946) che nell’appoggiare la forma di governo parlamentare aveva preteso “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo” e ad evitare le “degenerazioni del parlamentarismo”.  
 
Senza la previsione di congegni costituzionali che riconoscessero il ruolo forte del presidente del Consiglio dei Ministri solo la formazione di maggioranze autosufficienti che esprimessero un leader riconosciuto dotato di grande prestigio avrebbe potuto supplire a tale carenza. Nella realtà ciò non avvenne se non nel breve esordio degasperiano. Poi s’impose la conflittualità legata alla frammentazione partitica, con crisi extraparlamentari ricorrenti e grande debolezza dell’esecutivo. La ricerca della governabilità divenne per anni uno dei miraggi inseguiti nei dibattiti dei politologi e dei costituzionalisti. 
 
La periodizzazione costituzionale 
Accennato il processo costituente e le caratteristiche della nuova costituzione e sottolineata la continuità dell’ordinamento statale, occorre ora richiamare le fasi essenziali dell’evolversi della costituzione. In questo modo sarà possibile non solo comprendere meglio il testo costituzionale ma anche riflettere sul suo rendimento e sul permanere della validità delle scelte operate dai costituenti.  
 
Dalla natura compromissoria della carta costituzionale derivava una notevole ricchezza di contenuti che avrebbero potuto essere attuati con diversi indirizzi a seconda del prevalere delle diverse componenti politiche dei futuri parlamenti. Gran parte delle regole costituzionali erano redatte in termini particolarmente ampi, e a volte generici e declamatori, e tali da essere affidati alla discrezionalità dei partiti politici nella futura azione di completamento del messaggio costituzionale. 
 
Nell’equilibrio complessivo della forma di governo italiana i partiti assumevano un ruolo decisivo rispetto all’effettivo funzionamento delle istituzioni. Un ruolo destinato a radicarsi in misura sempre maggiore nel corso degli anni successivi e tale da rendere il sistema politico italiano difficilmente equiparabile a quello delle altre democrazie occidentali. Nel momento stesso in cui entrava in vigore la nuova costituzione veniva a mancare la coesione fra le principali forze politiche operanti nella fase costituente. Le sinistre venivano escluse dal governo nel maggio del 1947 e le prime elezioni del parlamento (aprile 1948) segnavano una netta contrapposizione fra maggioranza e opposizione, radicandosi la convenzione per cui i partiti della sinistra e in particolare il partito comunista erano considerati antisistema e quindi non abilitati a raggiungere responsabilità di governo, con una conseguente stabilizzazione del ruolo oppositorio dello stesso partito. Si produceva quindi un clima politico sfavorevole a un immediato adempimento del dettato costituzionale e del programma di riforme strutturali (prime fra tutte la riforma dell’amministrazione e la revisione dei codici). Si è soliti definire questo primo periodo della vita repubblicana come «fase di congelamento » della costituzione (1948-1956), caratterizzata soprattutto dal tentativo fallito di dare all’ordinamento un’impronta maggioritaria che non tutte le forze politiche erano pronte ad accettare. Lo strumento prescelto per assicurare stabilità all’esecutivo fu sin da allora una modifica del sistema elettorale. Nel 1953 veniva, infatti, approvata una legge (l. 31 marzo 1953, n. 148) che attribuiva un premio di maggioranza alla coalizione che avesse raggiunto il 50,1% dei voti.  
 
La sua scarsa funzionalità all’obiettivo perseguito e le aspre polemiche sollevate da parte delle opposizioni rendevano opportuna la rimozione di tale modifica legislativa consentendo la ripresa del dialogo sul tema dell’attuazione costituzionale. La forte conflittualità fra il partito dominante di centro, la democrazia cristiana, e le sinistre si attenuava nel 1955 con l’elezione a presidente della repubblica di Gronchi, candidato non ufficiale della maggioranza governativa risultato eletto grazie ai voti determinanti delle sinistre. Le modalità di elezione del nuovo presidente e i contenuti del suo discorso di insediamento mostravano l’intenzione di valorizzare la centralità della sede parlamentare per la mediazione delle diverse posizioni politiche, la consapevolezza di dover ricercare equilibri di governo che non emarginassero forze di opposizione rappresentative di ampie fasce dell’elettorato, e infine, sulla base di tali premesse, la volontà di procedere alla realizzazione degli istituti mancanti. 
 
Iniziava quindi una fase di parziale attuazione della costituzione (1956-1968), con l’entrata in funzione della Corte costituzionale (1956), l’istituzione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (1957) e del Consiglio Superiore della Magistratura (1958). In questo periodo, fermo restando il ruolo determinante del maggior partito di centro, si venivano a configurare diverse coalizioni governative, con il passaggio da quelle centriste (1953-1962) a quelle di centro-sinistra in cui alla componente democristiana, socialdemocratica, liberale e repubblicana si affiancava quella socialista, essendo venuta a cessare nei confronti di tale partito la convenzione escludente. 
In una fase ulteriore (1968-1976) si aveva un’accentuata accelerazione della attuazione costituzionale attraverso il varo dell’ordinamento regionale, con l’approvazione degli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria (1970), l’approvazione della normativa attuativa dell’istituto referendario (1970), l’adozione dei nuovi regolamenti parlamentari (1971), l’adozione dello statuto dei lavoratori (1970), l’accentuazione della disciplina relativa all’intervento pubblico nell’economia. 
Le coalizioni governative di centro-sinistra erano condizionate da una cronica debolezza e dalla costante necessità di addivenire a rapporti collaborativi con l’opposizione di sinistra svolta dal partito comunista. Questa situazione si manifestava in tutta evidenza durante la settima legislatura (1976-1979) in cui coalizioni governative minoritarie dovettero giustificarsi sulla base prima di astensioni da parte dell’opposizione e quindi basandosi su un suo esplicito appoggio (c.d. governi di unità nazionale).  
 
La formula collaborativa utilizzata emergeva con evidenza, ad esempio, nell’uso costante di decreti-legge sistematicamente emendabili in sede di conversione, nella disciplina della legge di bilancio e della legge finanziaria e nella gestione della nuova sessione di bilancio, nel varo della più importante legislazione. In tutti questi casi a un’iniziativa governativa corrispondeva un sostanziale potere d’integrazione ed emendamento dell’opposizione che disponeva di una reale capacità di interdizione con un’eliminazione di qualsiasi parvenza di autosufficienza della maggioranza.  
Alle critiche a tale situazione seguiva (1979-1992) una fase di parziale razionalizzazione delle istituzioni caratterizzate dal tentativo di rafforzare il governo e la maggioranza. Sono indici di tali tentativi l’introduzione preferenziale del voto palese, l’introduzione del controllo parlamentare di costituzionalità dei decreti-legge, la disciplina del governo (1988) e quella delle autonomie locali e del procedimento amministrativo (1990). Il tentativo di razionalizzazione della forma di governo non poteva tuttavia risolvere i diversi problemi via via accumulatisi e in particolare non teneva in conto l’insoddisfazione maturata nella società italiana nei confronti del complessivo sistema dei partiti politici sempre più distanti dalle esigenze e aspettative del cittadino.  
 
La sfiducia per il sistema dei partiti si sommava quindi alla tradizionale difficoltà ad operare la rotazione di ruoli fra maggioranza e opposizione e che aveva consentito quelle formule di collaborazione (c.d. consociativismo) che avevano progressivamente allontanato la pratica costituzionale da un ideale modello di governo parlamentare caratterizzato dalla autosufficienza del governo sulla base del rapporto fiduciario.  
 
La frattura data dall’abbandono del principio proporzionale. Il preteso passaggio a una Seconda Repubblica 
Tale situazione sembra avere un arresto soltanto con la profonda crisi della maggior parte dei partiti e l’emergere di nuovi soggetti politici in occasione delle indagini giudiziarie relative ai finanziamenti illeciti dell’attività politica e col cambiamento della legislazione elettorale in seguito al referendum del 1993, che ha consentito l’inizio di una bipolarizzazione e quindi il realizzarsi di esempi effettivi di alternanza al governo fra due raggruppamenti di partiti.  
In pratica, a costituzione formale invariata, il referendum sulle leggi elettorali ha provocato una netta cesura nel tessuto costituzionale. Un principio non scritto ma caratterizzante più di ogni altro il sistema politico veniva rinunciato a favore del principio maggioritario. La svolta era drastica e veniva individuata in modo atecnico, ma efficace, nel preteso passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. 
In realtà la modificazione della legge elettorale delle due camere in senso maggioritario non ha consentito di risolvere se non in parte le criticità da più parti riscontrate sia nella forma di governo (rafforzamento del ruolo dell’esecutivo), sia nei rapporti fra stato e regioni (domanda di incremento delle autonomie o addirittura federalizzazione dello stato). Per quanto riguarda il ruolo del governo la legislazione parzialmente maggioritaria ha consentito l’alternanza per cinque volte, nel 1994, 1996, 2001, 2006, 2008.  
 
Ma l’aver potuto dare legittimazione diretta al leader della coalizione vincente non ha significato consentire in senso tecnico l’elezione diretta del presidente del consiglio in quanto non sono state modificate le norme costituzionali sulla formazione del governo e sui suoi poteri. La revisione deliberata nel 2004 dalla maggioranza di centro-destra intesa a rafforzare il ruolo del presidente del consiglio che sarebbe stato individuato collegando la sua candidatura a una lista di candidati alla Camera dei deputati, avrebbe nominato e revocato i ministri e concentrato in sé forti poteri di indirizzo e avrebbe disposto del potere di scioglimento della Camera, veniva respinta dal seguente referendum del 2006. Non abbiamo quindi ottenuto il governo parlamentare nella versione britannica del governo di gabinetto o del primo ministro. Di conseguenza restiamo con governi esposti alle crisi interne della maggioranza, che devono ricorrere con frequenza al decreto-legge per affermare la loro politica. 
 
Per quanto riguarda la domanda di più ampie autonomie che con l’affermarsi di un nuovo partito federalista ha condotto a parlare addirittura della trasformazione dello stato regionale in un non ben definito stato federale, qualcosa è stato fatto, e tecnicamente molto male, da un’affrettata revisione del 2001. La l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 ha introdotto una radicale riforma del titolo V della parte seconda della costituzione incidendo profondamente non solo sul ruolo delle autonomie territoriali ma sul sistema delle fonti normative. Essa è stata in grado di operare una riforma che investe una pluralità di disposizioni costituzionali e va quindi oltre al semplice emendamento di puntuali disposizioni del testo come già avvenuto in passato. La modifica più significativa riguardava la nuova disciplina del riparto di attribuzioni legislative fra stato e regioni. Veniva individuata una serie di materie definite di competenza esclusiva statale, una serie di materie a competenza concorrente con previsione della fissazione preventiva dei principi fondamentali ad opera della legge statale e infine l’assegnazione alla competenza esclusiva regionale delle materie residue. Non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione del testo deliberato dalla sola maggioranza di centro-sinistra, in seguito a due diverse richieste, il testo veniva sottoposto a referendum e quindi approvato dal corpo elettorale il 7 ottobre 2001. La discutibile stesura delle norme sui rapporti stato/regioni obbligherà poi la Corte costituzionale a intervenire con una nutrita giurisprudenza correttiva 
 
Attualmente, dopo circa un ventennio dallo storico abbandono del principio proporzionale nel 1993 – data ideale di inizio della c.d. Seconda repubblica - dobbiamo constatare come la Costituzione continui il suo cammino pur se con sensibili alterazioni rispetto al disegno iniziale. Per quanto riguarda la forma di governo il maggioritario con correttivi della riforma del 1993 è stato seguito da una nuova legge elettorale per la Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica (l. 270/2006) che contraddiceva l’esito del referendum abrogativo del 1993 a favore di un indirizzo proporzionalistico. Il proporzionale era collegato a circoscrizioni plurinominali e a liste di partito bloccate e accompagnato da correttivi in quanto venivano introdotte soglie di sbarramento, differenziate a seconda che un partito fosse o meno coalizzato con altri, ed era previsto un premio di maggioranza per liste e coalizioni che avessero conseguito il maggior numero di seggi senza tuttavia ottenere la maggioranza assoluta.  
 
La nuova legge non escludeva quindi un effetto maggioritario. Essa veniva per la prima volta utilizzata nei giorni 8 e 9 aprile 2006 e, dopo lo scioglimento anticipato della XV Legislatura, per le consultazioni del 13 e 14 aprile 2008.  
La breve XV Legislatura vedeva un timido recupero del dibattito sulla grande riforma che conduceva alla c.d. “bozza Violante” in cui i diversi partiti si dichiaravano concordi su una forma di razionalizzazione del bicameralismo, prevedendo la sola Camera dei Deputati come titolare del rapporto fiduciario col Governo, il Senato federale come camera eletta dai consigli regionali e dalle autonomie, un rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio. Questo testo sembrava dover costituire il punto di partenza per la ripresa dell’argomento all’inizio dell’attuale XVI Legislatura ma nulla è accaduto in proposito. 
 
Una transizione senza esito 
L’insoddisfazione per il funzionamento del sistema politico, soprattutto sotto il profilo della sua efficienza quanto a governabilità, ha condotto nel tempo a numerose proposte di riforme. Queste sono state concepite anche come riforme organiche della costituzione e in tale prospettiva, a parte l’esito positivo della discussa revisione del 2001, non hanno avuto successo. 
Frequenti sono stati invece singoli emendamenti utilizzando la procedura dell’art. 138: numero dei parlamentari e durata del senato (56, 57, 60); istituzione della regione Molise (57 e 131), durata del mandato dei giudici costituzionali (135); reati ministeriali (96, 134, 135); semestre bianco (88); amnistia e indulto (79), abolizione dell’autorizzazione a procedere (68); forma di governo e statuti regionali (121, 122, 123, 126); giusto processo (111); voto degli italiani all’estero (48) e circoscrizioni estero (56, 57); pari opportunità (51); reintegrazione dei diritti dei membri di Casa Savoia (XIII disp. trans.), da ultima l’abolizione della pena di morte (27). 
 
Per quanto riguarda le riforme organiche vanno menzionati i due comitati di studio diretti a realizzare un inventario delle proposte di riforma istituiti nella VIII legislatura presso le commissioni affari costituzionali delle due camere (1982). Nel corso della medesima legislatura fu istituita (1983) una commissione parlamentare bicamerale per lo studio di proposte di riforma da presentare alle assemblee (presidente Bozzi). La commissione suggerì il mantenimento della forma di governo parlamentare, il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, razionalizzando l’istituto referendario, la correzione del bicameralismo tramite la specializzazione di funzioni differenziate delle assemblee, il rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio dei ministri. La relazione conclusiva non fu comunque discussa. Nel corso della X legislatura particolare risonanza ebbe il messaggio sulle riforme inviato dal presidente Cossiga (1991), anch’esso tuttavia senza seguito immediato. Nella XI legislatura fu istituita una commissione bicamerale (1992: presidenti De Mita-Iotti) tramite apposite risoluzioni delle due assemblee. La commissione avrebbe dovuto elaborare un progetto organico di revisione della parte seconda della costituzione e progetti di leggi elettorali per le camere e i consigli regionali.  
 
Una legge costituzionale (l. cost. 1/1993) disciplinò il procedimento da seguirsi, modificando per quel solo caso il dettato dell’articolo 138. Si previde, infatti, che i risultati dei lavori parlamentari sarebbero stati sottoposti a referendum necessario, e non eventuale. La commissione cessava i suoi lavori per scioglimento anticipato del parlamento (1994) e il lavoro svolto non fu oggetto di dibattito e approvazione parlamentare. Nel corso della sua attività i diversi comitati preparatori avevano proposto una modifica dei criteri di ripartizione delle competenze fra stato e regioni e un rafforzamento delle autonomie regionali, nonché una legittimazione elettorale del vertice governativo anche in connessione a una modifica in senso maggioritario della legge elettorale. Nella successiva XII legislatura fu attivato a livello governativo un comitato di studio formato da esperti che produsse un documento che tra l’altro si pronunciava per una riorganizzazione in senso federalista dell’ordinamento. Durante la XIII legislatura veniva nuovamente istituita una commissione bicamerale per le riforme (presidente D’Alema) per elaborare progetti di revisione della parte seconda della costituzione, e in particolare in tema di forma di stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie. Anche in questo caso si previde che il progetto elaborato dalla commissione sarebbe stato sottoposto a referendum approvativo, e quindi in deroga per il caso specifico al procedimento previsto dall’articolo 138 (l. cost. 1/1997). Il progetto elaborato dalla commissione non veniva tuttavia dibattuto e approvato dal parlamento. Esso comprendeva una supposta riforma in senso federale, l’accettazione di una forma di governo definita semipresidenziale con incremento di poteri di garanzia del presidente, nuove regole in tema di amministrazione, giustizia amministrativa, Consiglio Superiore della Magistratura, composizione della Corte costituzionale, partecipazione al processo normativo comunitario del parlamento e delle regioni. Parti rilevanti del testo elaborato dalla commissione in tema di autonomie regionali sono state utilizzate dalle leggi costituzionali 1/1999 e 3/2001. 
 
La ricordata l.cost. 3/2001 riusciva infine a riformare radicalmente il Titolo V della parte seconda della Costituzione.  
Nella successiva XIV Legislatura la maggioranza di centro-destra approvava il testo di un’ulteriore legge di riforma che investiva non soltanto l’appena revisionato titolo V ma altresì la stessa forma di governo e il sistema delle garanzie. Il testo veniva rigettato dal corpo elettorale nella consultazione del 24 giugno 2006. E quindi la nuova riforma non veniva coronata da successo. Seguiva senza esito nella breve XV Legislatura l’accordo politico sulla ricordata c.d. “bozza Violante”. Come notato nulla di rilevante è avvenuto nella XVI caratterizzata da una girandola di fantasiose proposte di revisione lontane da una realistica possibilità di attuazione. 
 
Una riforma radicale effettivamente intervenuta ma misconosciuta 
Il capitolo delle riforme andrebbe completato illustrando quella che è stata la più significativa grande riforma della Costituzione introdotta tramite legge ordinaria, e quindi in palese contrasto con la volontà iniziale del costituente che aveva rinviato esplicitamente alla procedura aggravata dell’art. 138. Alludiamo ai diversi trattati che hanno previsto l’adesione alle diverse Comunità europee a far tempo dal 1952 e infine all’attuale Unione europea. Questi hanno provocato uno sconvolgimento del disegno iniziale della Costituzione limitando profondamente i poteri statali e regionali in seguito ad una affrettata accettazione tramite semplici leggi ordinarie dei trattati comunitari soltanto in parte neutralizzata dalla teoria dei controlimiti elaborata a posteriori dalla Corte costituzionale diretti a salvaguardare il nucleo duro della Costituzione.  
 
La giustificazione, piuttosto faticosa, della costituzionalità del ricorso alla legge ordinaria è stata trovata nella clausola dell’art. 11 che a certe condizioni consente le limitazioni di sovranità. Rimedio discutibile e giuridicamente debolissimo a uno strappo effettuato a fin di bene per rispondere alla aspettativa europeistica delle classi dirigenti del momento. L’articolo 11 è stato il grimaldello che ha aperto la strada a quella trasformazione surrettizia e tendenzialmente permanente di larga parte del nostro ordine costituzionale in seguito alla recezione del diritto comunitario. 
 
Un risultato in linea con un’aggiornata concezione dello stato costituzionale 
Avviandomi alla conclusione vorrei riflettere su quello che mi pare essere uno dei portati più qualificanti e interessanti della Costituzione del 1948 e che ancora oggi sicuramente la caratterizza: l’avere posto al centro del sistema politico e costituzionale il principio della centralità della costituzione. 
Può sembrare un gioco di parole ma non lo è. 
Fino alla svolta della Costituente nel costituzionalismo liberale tradizionale era la legge del parlamento il centro intorno al quale ruotava il sistema politico. Il parlamento in quanto rappresentanza della nazione e la legge quale strumento e braccio operativo dello stesso. Di qui lo slogan della “sovranità parlamentare” che implicava un trasferimento a favore dell’assemblea e dei suoi componenti della sovranità nazionale. Alla nazione, entità collettiva evanescente, si chiedeva una sorta di delega in bianco tramite il procedimento elettorale a favore di un corpo rappresentativo, del tutto tangibile, che gestiva in concreto la cosa pubblica in tendenziale distacco dal corpo elettorale. 
 
Questo modello veniva già superato dai primi tentativi di riordinamento concettuale dei rapporti fra legge e costituzione, tra parlamento e potere costituente, e quindi a far tempo dall’esperienza weimariana dopo il primo conflitto mondiale. Ma è al termine del secondo conflitto che il panorama europeo è destinato a mutare radicalmente e che in Italia viene progressivamente abbandonata una concezione che si era radicata ai tempi dello Statuto e che ancora oggi continua a riemergere di tanto in tanto. 
Nella nuova impostazione anche il parlamento è subordinato costantemente alla Costituzione e la Corte costituzionale ha il compito di garantire questa subordinazione ricevendo addirittura il potere di invalidare la legge parlamentare. Il parlamento deve sapere quindi che la Costituzione è il valore essenziale di riferimento che deve essere costantemente osservato. 
 
La nuova costituzione comporta una sensibile modifica nell’ordine delle fonti normative. La legge non solo è rigidamente subordinata alla costituzione ma è accompagnata dalla legislazione governativa (i decreti delegati e i decreti legge), da quella regionale, dalle sentenze creative della Corte costituzionale e infine, al di fuori di qualsiasi abilitazione esplicita della costituzione, dalla debordante normativa di livello legislativo sfornata a ritmi frenetici dagli organi comunitari (regolamenti e direttive). In altre parole alla centralità della Costituzione si abbina un pesante ridimensionamento del ruolo della legge e del parlamento che è destinato a convivere con il governo legislatore, le regioni e le altre svariate autonomie, i centri di produzione normativa comunitari. 
Concludendo, nella concezione tradizionale la costituzione era vista come uno schema enunciativo di principi che avevano sempre bisogno di essere resi operativi dalla legge per essere in concreto attuati. La Costituzione del 1948 modifica in larga parte questa impostazione, in quanto la Costituzione si impone in modo forte al legislatore, e in larga parte per quanto riguarda le disposizioni sui diritti è autoapplicativa in quanto il giudice può direttamente utilizzare le sue norme, e il giudice costituzionale si occupa di una sua puntuale tutela. La costituzione è anch’essa diritto positivo ancor prima di quello legislativo tradizionale e in concorrenza con questo. 
 
Queste brevi conclusioni dovrebbero continuare a essere tenute ben ferme anche in un momento storico in cui i soggetti politici sembrano aver perso di vista i termini di riferimento della cornice costituzionale che inquadra la società civile. 
 
16 Giugno  2021