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Il futurismo e la moda: Un eserc
Il futurismo e la moda: “Un esercito di fulmini” 
di Ninni Raimondi
 
Il futurismo è una rivoluzione che ha stravolto (o voleva stravolgere) ogni campo dello scibile umano: pittura, scultura, poesia, grafica e dulcis in fundo, la moda. 
Stiamo parlando naturalmente degli inizi del XX secolo: l’abbigliamento, femminile e maschile, era ancora fortemente ancorato a stilemi liberty fatti di colori tenui, gonne vaporose e giacche inamidate in contrapposizione alla moda bohémienne altrettanto romantica e blasé. 
 
Non solo smoking, anzi 
I futuristi sono combattuti nei propri abiti tra l’anima dandy e quella dell’uomo d’azione: Tristan Tzara, il dadaista, rimase impressionato dall’eleganza dei futuristi italiani, vestiti con eleganti completi grigi ma con calzini dai colori sgargianti, rossi, gialli o verdi.  
Marinetti, Balla e i suoi si lasciano alle spalle la “trasandatezza” tipica del bohémien per un linguaggio anticonformista, pulito e moderno: ne è esempio il celebre gilet azzurro di Aldo Palazzeschi. 
Marinetti non disdegnava lo smoking anche in occasione di accese manifestazioni di piazza: ne capeggiò una antiaustriaca utilizzando la bombetta come una bandiera. 
Nel 1916 Lucien Coperchot, un giornalista francese in visita nello studio di Balla, rimase colpito dal suo abbigliamento, dalla cravatta, il papillon verde e giallo a forma di elica o dalle scarpe bianche e gialle – ora, quasi una consuetudine, ma per l’epoca qualcosa di avant garde.  
Lo stesso FuturBalla infatti diceva: “L’uomo moderno è portato verso il colore”. 
 
 
Il trionfo dell’asimmetria 
Fu proprio il pittore torinese a voler rivoluzionare la “quotidianità” dell’abito uscendo dalla mera provocazione: tra le sue invenzioni, anche una cravatta di celluloide con lampadina annessa. 
Era moglie Elisa a cucire materialmente i suoi abiti: i risvolti della giacca dovevano essere rotondi a sinistra e squadrati a destra.  
L’asimmetria regnava sovrana. 
 
La “mise” politica 
Ma anche la visione “politica” e interventista del mondo entrava a buon diritto nelle loro “sartorie”: nel 1914 i futuristi lanciarono il “Vestito Antineutrale”.  
Secondo le indicazioni degli artisti, le scarpe dovevano essere diverse l’una dall’altra per forma e colore per prendere a calci i pacifisti e gli abiti diventavano fosforescenti per spaventarli. 
 
Nelle prime serate futuriste Palazzeschi è in frac, Boccioni indossa eleganti bluse, Mazza e Marinetti vestono inamidate redingote mentre Altomare, Carrà e Russolo si distinguono in impeccabili smoking: impassibili, di fronte a un pubblico spesso smaniante e urlante, essi seppelliscono la stantia ribellione bohémienne e lo sdegno degli spettatori dei loro spettacoli mantenendo un distacco olimpico. 
Una lezione di modernità e di anticonformismo che anticipava di decenni lo slogan: “clean living under difficult circumstances” (stile pulito in circostanze difficili) caro ai mod degli anni Sessanta. 
 
E le donne?  
Il 29 febbraio 1920 viene pubblicato in “Roma Futurista” il Manifesto della moda femminile futurista a opera di Volt (nome d’arte di Vincenzo Fani): dopo aver sostenuto che la moda femminile è “sempre stata futurista”, l’autore passa ad equipararla alle altre arti “maggiori”:  “La moda è un’arte come l’architettura e come la musica”. 
Al bando le fogge tradizionali e i colori “smorti”: l’abito della donna futurista non è mai troppo stravagante.  
Nel manifesto vengono messi al bando anche i materiali tradizionali e se ne propongono ben 100 di nuovi. Tra di essi “caucciù, alla pelle di pesce, alla tela d’imbalaggio, alla stoppa, alla canapa, ai gas, alle piante fresche e agli animali viventi”.  
Provocazione? In parte, si. Ma in un’altra misura, questa proposta anticipa di decine di anni ciò che sarebbe successo negli anni sessanta e settanta.  
E la sensualità della donna non dovrà essere nascosta, anzi: “Le nuove forme non dovranno nascondere, ma accentuare sviluppare esagerare i golfi e i promontori della penisola femminile”.  
 
L’invenzione della tuta 
Ma le intuizioni sartoriali del futurismo non finiscono qui, non si esauriscono nel “protagonismo” dei propri intellettuali: esse vengono messe in pratica ad esempio da Ernesto Henry Michahelles, in arte Thayaht, futurista e fascista nonché pittore, scultore,  esoterista e stilista di moda.  
E’ sua l’invenzione della tuta: una mescolazione nuova, pratica e rapida.  
In un unico capo d’abbigliamento sono infatti fusi pantaloni, maglia e giacca. Secondo il prototipo di Thayaht, doveva chiudersi con dei semplici bottoni sul davanti. Era dotata di quattro comode tasche  ma era assolutamente sguarnita di qualsiasi decorazione artificiosa; un indumento da indossare in pochi minuti. 
Il nome con cui questo abito è stato battezzato da Thayaht va a riprendere il concetto (tuta = tutta, unica) cioè l’abito completo e a forma di “T”. 
Licenza Creative Commons  27 Febbraio 2019
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