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Salario minimo: la propaganda de
Salario minimo: la propaganda del governo e le colpe dei sindacati 
di Ninni Raimondi
 
Nove euro lordi l’ora è una retribuzione adeguata? Ne è convinto il governo, che punta ad introdurre anche in Italia un salario minimo fissato per legge. Una realtà già da tempo consolidata in altri Paesi europei, laddove siamo gli unici (insieme alla Grecia) a non averla ancora introdotta. 
 
Il 20% dei lavoratori guadagna meno di 9 euro l’ora 
La proposta, a firma M5S, prevede l’istituzione di un minimo tabellare pari appunto alla retribuzione oraria di nove euro lordi. Obiettivo rilanciare i redditi, insistendo soprattutto su quelli più bassi. 
D’altronde, spiegano Istat e Inps, il 20% dei lavoratori ha uno stipendio inferiore a quello che l’esecutivo vorrebbe fissare come salario minimo. A pesare sono soprattutto gli apprendisti (il 60% di essi guadagna meno di quella soglia), gli addetti nei servizi di ristorazione (27%) e gli operai (26%). 
 
Il salario minimo è davvero la soluzione? 
Di fronte a questi numeri, il salario minimo rappresenta veramente la soluzione? Se il modello che si vuole seguire è quello europeo occorre considerare che, ad esempio per quanto riguarda gli apprendisti, sono spesso previste delle deroghe. Per cui una buona fetta di coloro che oggi trainano al ribasso le percentuali potrebbero essere esclusi dall’operazione, che perderebbe così buona parte della propria forza. 
In secondo luogo vanno considerati i costi a carico delle imprese. Sempre secondo l’Istat, l’aggravio si aggirerebbe attorno ai 2,3 miliardi. Una somma non indifferente e senza dubbio capace di spingere all’insù una quota redditi sul Pil da troppi anni in calo. Ma allo stesso tempo a rischio di ridurre la domanda di lavoro. Qui, semmai, bisognerebbe insistere, riducendo gli oneri a carico degli imprenditori che oggi si trovano alle prese con un cuneo fiscale che rende quasi sconveniente pensare a nuove assunzioni. Ebbene, solo una volta affrontato questo sarà, nel caso, il momento di parlare di salario minimo. Al contrario si rischia di prendere la china del Jobs Act, la riforma che ha totalmente mancato il bersaglio nella misura in cui pensava di affrontare una crisi di domanda (realtà: le aziende non assumono perché costra troppo) agendo sul lato dell’offerta (fantasia: le aziende non assumono perché non possono licenziare). 
Anche fissando per legge il tetto, vuoi perfino ad una soglia inferiore rispetto a quella prospettata, nessun beneficio avrebbe poi chi, ad oggi, dal mercato del lavoro è escluso. Parliamo dei disoccupati – stabilmente sopra il 10%, con picchi oltre il 30% per i giovani – che, molto semplicemente, di uno stipendio non possono proprio godere. Oppure lavorano, ma in nero. Laddove quindi le retribuzioni contrattuali non arrivano per ovvi motivi. 
 
Le colpe dei sindacati 
Visti i numeri delle distanze retributive fra lavoratori, più che lecito il dubbio: perché tutte queste differenze? Non esistono i contratti collettivi di lavoro? 
La risposta sarebbe affermativa, se i sindacati avessero adempiuto agli obblighi costituzionali. Parliamo dell’articolo 39, che imporrebbe loro la registrazione presso il ministero del Lavoro quale condizione per poter stipulare contratti validi non solo fra le parti, ma fra tutti i lavoratori di categoria. Nel momento in cui la registrazione non è (mai) avvenuta, i Ccnl non hanno mai potuto godere della cosiddetta piena efficacia erga omnes, lasciando di fatto zoppo il sistema. 
Non vi è a questo punto da meravigliarsi se le rappresentanze dei lavorani si dicono contrarie al salario minimo, che significherebbe togliergli una parte della forza contrattuale.  
O meglio, di quel poco rimastagli. E che, visti i chiari di luna in sede di rinnovo con accordi quasi sempre al ribasso, non sembrano neanche riuscire ad usare degnamente. 
Licenza Creative Commons  17 Marzo 2019
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