Questo Sito non ha fini di lucro, né periodicità di revisione. Le immagini, eventualmente tratte dal Web, sono di proprietà dei rispettivi Autori, quando indicato.  Proprietà letteraria riservata. Questo Sito non rappresenta una Testata Giornalistica in quanto viene aggiornato senza nessuna periodicità. Pertanto non può essere considerato, in alcun modo, un Prodotto Editoriale ai sensi e per gli effetti della Legge n.62 del 7 Marzo 2001.
 
 
Scarica il PDF della situazione
Interni
Esteri
Cultura
Parolatio
Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
Si avvisano i lettori che questo sito si serve dei cookie per fornire servizi e per effettuare analisi statistiche completamente anonime. Pertanto proseguendo con la navigazione si presta il consenso all' uso dei cookie..
L’antifascismo oggi
L’antifascismo oggi: il declino grottesco di chi sa solo prendersela coi cadaveri 
di Ninni Raimondi
 
Le ultime battaglie antifasciste, in ordine di tempo: innanzitutto quella contro la candidatura di Caio Mussolini alle elezioni per il reato di cognome apologetico, a 27 anni dall’entrata in Parlamento di un’altra Mussolini, discendente anche più stretta del Duce. E poi quella contro i fiori sulla tomba del sorvegliante del campo di transito di Bolzano, Michael Seifert (il custode del cimitero ha poi dovuto spiegare che si trattava di un bouquet di plastica posto… nella tomba a fianco). 
 
Declino grottesco e comico 
Tutto questo la dice già lunga sullo stato di salute dell’antifascismo. Il quale sarà sì trionfante, in termini di mentalità etica “diffusa” e implicita (lo spirito dell’8 settembre è più vivo che mai), ma decisamente avviato verso un declino grottesco e comico dal punto di vista delle sue espressioni politiche esplicite. Nei due casi citati, il fenomeno è particolarmente evidente: da una parte si invocano restrizioni alle libertà in virtù di un semplice cognome, cosa che nessuno si sognò di fare per i figli stessi del capo del fascismo, anche con le ferite della guerra ancora aperte, dall’altra si chiede, sfidando il senso del ridicolo, di improvvisarsi tombaroli, trafugare la tomba di un misconosciuto soldato tedesco e seppellirlo in un loculo anonimo affinché nessuno gli porti dei fiori. Proposte che si commentano da sole, ma che ben illustrano l’arrancare di un’ideologia ridotta a espressione micro-reazionaria, in un’eterna rincorsa su una realtà che le è già sfuggita di mano. Come abbiamo detto mille volte, l’antifascismo, in Italia, è stato un fenomeno d’élite, una fede minoritaria, pressoché inesistente a Regime trionfante, in parte resuscitato da un colpo di Stato di destra, con il 25 luglio, e solo localmente assurto al rango di reale passione popolare. 
 
Ignorato, sopportato, considerato estraneo 
Nel dopoguerra si è presto trasformato in stanca ideologia ufficiale della neonata repubblica, con funzioni per lo più ornamentali, consociative e carrieristiche. Solo negli anni ’70 si è trasformato in sanguinaria fede generazionale per una parte della gioventù, molto rumorosa, ma comunque minoranza nel Paese reale. Oggi, l’antifascismo è per lo più ignorato, sopportato, considerato estraneo, lontano, noioso. A questa deriva, l’intellighenzia antifascista non sa opporre nulla se non le vignette di Biani sul Manifesto, finendo per cercare di tamponare le falle del proprio progetto politico come l’idraulico di quella vecchia pubblicità dei rubinetti. Uno spettacolo patetico. Non essendo riusciti a sfascistizzare l’Italia profonda fino in fondo, si attaccano alle espressioni esteriori, tramutandosi in vigili urbani del buon costume antifascista. Perché va da sé che se qualcuno avesse davvero portato fiori sulla tomba di Seifert (e abbiamo visto che così non è stato), un antifascista serio dovrebbe domandarsi perché questo accade nella società, perché un atto del genere non viene universalmente considerato tabù, non mettersi a trafugare la salma in una tomba anonima. 
 
Prendersela coi cadaveri 
Ma la prima battaglia l’hanno già persa.  
E lo sanno.  
Hanno perso la battaglia per lo sradicamento del fascismo dalla coscienza collettiva, quindi si mettono all’eterna rincorsa delle sue espressioni più o meno vistose e più o meno caricaturali nella società, denunciando chi espone bottiglie con la faccia del Duce e cose simili.  
Si indignano quando Salvini strizza l’occhio ai fascisti, ma non hanno mai capito perché questa strategia, già messa in piedi efficacemente per anni da Berlusconi, risulti sempre vincente e portatrice di consensi.  
E allora non resta loro che la strada più semplice: chiedere sempre più leggi liberticide, sempre più reati d’opinione, ancora più repressione, la messa fuorilegge di ciò che la Costituzione stessa palesemente non mette al bando, la volontà di punire anche i nostalgismi innocui, ironici e strapaesani.  
Oppure, al limite, resta in auge il grande classico dell’ambiente: prendersela con i cadaveri.  
 
Potrei affermare con disinvoltura, la stessa utilizzata dalla sinistra per celebrare i partigiani ogni 25 aprile, che la giornata di San Sepolcro datata 23 marzo 1919 ossia l’istituzione dei Fasci italiani di combattimento evitò la presa di potere dei socialisti e la conseguente importazione della rivoluzione bolscevica in Italia. O forse Fiano e la Boldrini e Fico vogliono negare l’egemonia che allora il socialismo aveva conquistato anche a suon di botte, trasformando il nostro paese nell’incubatrice del comunismo? Magari lo faranno, magari lo han già fatto, ma il punto è che la verità storica è al netto della faziosità e dell’intransigenza dei custodi della narrazione storicamente corretta. 
 
La fine della Grande Guerra e l’idea di Patria 
E inizia tutto da lì, dal clima che in seguito alla Grande Guerra si era creato attorno ai nostri soldati e soprattutto ai reduci, sebbene questi ultimi, durante il rientro nelle proprie città, sapessero incutere timore con la solennità del loro passo. Il fenomeno del reducismo fece emergere la più cieca ostilità organizzata e promossa dai socialisti verso i giovani sopravvissuti alla guerra e desiderosi di contribuire, dopo anni d’assenza, alla rinascita della vittoriosa Italia, sebbene si trattasse di una vittoria monca. L’oltranzismo del Partito socialista nel voler cavalcare le ondate di protesta e scioperi per la mancanza di beni primari come il pane e il riso (vedi i disordini di Milano e Torino nella primavera e nell’estate del 1919) condusse allo scontro frontale con la parte di paese che non rinveniva la bandiera rossa issata a Pietrogrado un esempio da emulare, preferendovi una politica di esaltazione della propria patria e d’inevitabile inclusione di coloro che per essa avevano rischiato la vita al fronte. Gli organi socialisti definivano la Patria come “l’inganno borghese”, negando quindi la portata e il sentimentalismo della vittoria nella Grande Guerra. Sull’Avanti, Giacinto Menotti Serrati presentava la rivoluzione bolscevica come l’unica strada percorribile in Italia, mentre sul Popolo d’Italia Benito Mussolini vergava articoli intitolati “Contro la bestia ritornante”. È questa una contrapposizione che ha segnato la storia di questo paese e che continuiamo a tirarci dietro da circa cento anni. 
 
Per gli eredi dei partigiani una Patria senza patriottismo 
E oggi?  
Oggi, durante l’ennesimo 25 aprile assistiamo all’oltranzismo ideologico della sinistra orfana d’idee ma certa, al contempo, che vada boicottato ogni tentativo di resurrezione di quella Patria che già nel ’19 i socialisti vituperavano. E il nesso tra oggi e ieri, tra i Fiano di ieri e quelli di oggi è il loro totale scollamento dalla realtà, oggigiorno reso ancor più grave dalle passate esperienze che avrebbero dovuto insegnare come una Patria senza patriottismo non possa esistere, e sarebbe dunque un ossimoro pensare un cittadino incapace di amare la terra dei suoi padri. Non è affatto casuale il riferimento agli svariati tentativi di creazione di un esercito di “nuovi italiani”, incapace di provare quel legame intimo che da sempre lega un cittadino alla Patria. 
 
Ha vinto l’Italia di Guareschi 
Il 25 aprile i reduci dei partigiani dovrebbero in realtà piangere lacrime amare per non essere riusciti a importare il comunismo sovietico. È difatti ormai provato da fonti non di parte tale volontà, che cozza, oltretutto, col vestito di candida democraticità che costoro ancora oggi intendono indossare, definendosi di conseguenza gli unici meritevoli del diritto di parola. A Torino, nell’agosto del 1919, una delegazione russa venne accolta al grido di “Viva Lenin”, e venticinque anni dopo, come ci ha ricordato Guareschi coi suoi film, l’Unione sovietica veniva spacciata come il paradiso sceso in terra. Salvo poi, come faceva il Peppone di don Camillo, preferire decisamente la borghese sanità italiana rispetto a quella proletaria russa. Fatto sta, però, che nonostante il Pci fosse la più importante fucina di comunismo in Occidente, e che addirittura venisse considerato l’avamposto per l’annessione dell’Europa all’Unione sovietica, tali piani non sono mai stati portati a compimento, sebbene sia rimasta nel cuore della sinistra il sogno di calpestare quel nucleo di sentimenti che nel ’19 come oggi sanno tener viva la tenue fiamma dell’amor patrio. Questa loro avversione deriva dai piani fallimentari e dai progetti incompiuti, i quali oggi sarebbe inattuali e dunque abbisognano di una rivisitazione in chiave moderna che deve basarsi sulla contingenza del tempo. 
 
Disfattismo della sinistra 
Sì all’immigrazione clandestina di massa, sì all’accettazione dell’impermeabile cultura islamica, sì alle rivendicazioni di qualsiasi gruppo autodefinitosi minoranza, no alla famiglia detta tradizionale che ancora oggi rimane l’unica in grado di crear vita, sì alla lapidazione di chiunque non si accodi al pensiero unico antifascista, quindi anche ai festeggiamenti del 25 aprile, no a qualsivoglia forma d’esaltazione della Patria e della Nazione, concetti vetusti non conformi al verbo globalista e pacifista. La ricorrenza del 25 aprile è propedeutica a questo disfattismo perpetuo che la sinistra cavalca come ultima possibilità per tornare in auge, per riaffermarsi nel dibattito, per dare ossigeno ai propri polmoni. È un rigore che ogni anno è lì pronto per esser battuto, e se per caso non ti accodi al chiacchiericcio postumo e ai bagordi da fiera, finisci sui vagoni riservati alla feccia fascista meritevole di rieducazione. A proposito di liberazione, sarebbe interessante liberarsi dal giogo di questo conformismo ideologico, rivendicando il diritto di sbattercene del 25 aprile e di chi lo festeggia. 
 
Il solito 25 aprile, insomma. 
Licenza Creative Commons  25 Aprile 2019
2013
2014
2015
2016
2017
2018
2019