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Eroi dimenticati: Giuseppe Massi
Eroi dimenticati: Giuseppe Massina, il valoroso soldato di Gaser e il colonialismo nazionale 
di Ninni Raimondi
 
La Libia, l’Etiopia, la Somalia, sono Paesi che, sotto metri e metri di sabbia, nascondono i corpi dei nostri valorosissimi soldati, caduti per la difesa dei confini anche al di fuori dell’Italia. Per alcuni di loro la vita nell’esercito era qualcosa di irrefrenabilmente importante e, per questo, non lo abbandonarono mai. 
 
Il Carabiniere ragioniere 
E’ il 1901 quando, a Como, nasce Giuseppe Massina. Sono anni difficili quelli per l’Europa. La Belle Epoque illude, quasi, l’uomo europeo di essere in un periodo di pace e di prosperità perpetua e non lo prepara a quella che sarà la prima guerra mondiale. Massina, tuttavia, decide di godersi la vita e, a 19 anni, ottiene il diploma di ragioniere nella sua Como. 
L’esperienza della prima guerra mondiale, tuttavia, segnerà il giovane Giuseppe Massina che deciderà di entrare a far parte dell’Arma dei Carabinieri e di avanzare di grado all’interno dell’Esercito. Nel 1927, infatti, arriva la nomina a tenente ma, tutto d’un tratto come tutto era iniziato, Massina si ritira a vita privata e ricomincia a svolgere la mansione di ragioniere. 
 
Il ritorno in Arma 
Nel 1935 scoppiò la Guerra d’Etiopia e la pulce nell’orecchio arrivò anche a Massina. L’ex Carabiniere ritornò, pertanto, in caserma e si arruolò per il fronte. Quando gli venne detto che sarebbe stato posto come soldato semplice, lui accettò comunque. Arruolatosi nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, Massina venne inviato a Saganèiti, in Eritrea. Qui combatté al fianco dei soldati del battaglione alpino “Pieve di Teco” fino al 1938. 
In questa data, infatti, Giuseppe Massina venne affidato al battaglione coloniale. Il suo compito era quello di creare una banda di soldati africani fedeli all’Italia per resistere ai ribelli abissini. Il 18 giugno 1937, mentre difendeva la zona di Gaser, l’impeto nemico fu impossibile da sostenere. Giuseppe Massina venne ferito prima ad un braccio poi, mentre incitava i soldati, venne colpito una seconda volta al petto. 
In suo onore gli venne conferita una medaglia d’oro al valor militare: “Volontario di guerra come milite di una divisione CC.NN. Magnifica tempra di soldato, entusiasta ed animatore, sprezzante del pericolo e del disagio, sempre fra i primi. Alla testa della sua banda irregolare, da lui creata, si slanciava all’assalto di fortissima posizione nemica infliggendo all’avversario notevoli perdite. Ferito gravemente al braccio, rifiutava l’aiuto di un capo banda, che voleva portarlo al vicino posto di medicazione, non solo, ma invitava lo stesso graduato ed i gregari accorsi a non curarsi di lui che continuava a combattere, esortandoli a mantenere ad ogni costo la posizione occupata. Colpito una seconda volta al petto, in un supremo sforzo di eroismo e dedizione, si buttava ancora nella mischia al grido di: “Savoia” finché cadeva gloriosamente. Mirabile esempio di belle ed elevate virtù militari”. 
 
Nessuno tocchi il colonialismo europeo 
Il complesso di colpa verso i popoli dell’Africa, le cui pessime condizioni di vita – a detta del pensiero politically correct – sarebbero da imputare al colonialismo, si configura, sempre di più, come un autentico mito storiografico inculcato nell’homo europaeus e finalizzato a giustificare l’attuale invasione allogena, secondo il teorema dell’africano sfruttato che viene in Europa a farsi ripagare. Ma è veramente così? Si tralasceranno, in questa sede, spiegazioni aborrite dall’attuale relativismo culturale che impone categoricamente di concepire le singole civiltà come prodotto di differenti sviluppi storici non equiparabili tra loro e tutte egualmente dignitose e meritevoli di rispetto. Di conseguenza, si esamineranno esclusivamente i fatti, tentando di ricostruire come, in realtà, siano andate veramente le cose. Si badi che non si vuole affatto negare che siano avvenuti guerre e massacri, ma circoscriverli nella «normalità» delle relazioni internazionali del tempo. Ciò che si vuole negare, invece, è che tutti i mali attuali del continente nero risiedano in quella che è stata definita «età dell’imperialismo». 
 
Un’armonia fittizia 
Innanzitutto, bisogna chiedersi come sia stato possibile che in meno di un secolo – dal 1884, anno della Conferenza di Berlino voluta dal cancelliere tedesco Bismarck (†1898), in cui venne decisa la spartizione dell’Africa in zone d’influenza, agli anni Cinquanta del XX secolo, inizio del processo di decolonizzazione – l’Europa sia stata in grado di distruggere la decantata armonia politica, economica e culturale del continente africano, applicando persino forme diverse di dominio che andavano dal semplice protettorato – con il mantenimento di istituzioni e dinastie locali – al governo diretto. Evidentemente, questa tesi non regge. 
Due i casi esemplari: Liberia ed Etiopia. La prima fu una repubblica indipendente fondata nel 1847 da afroamericani – già schiavi negli Usa e poi affrancati – e fu l’unico Stato africano a non subire un’occupazione e un dominio coloniale, con un governo presidenziale modellato su quello statunitense. Ebbene, le condizioni di vita nel Paese sono, ancora oggi, catastrofiche, soprattutto dopo la terribile guerra civile iniziata nel 1980, a seguito del colpo di stato del generale Samuel Doe. Da rammentare che la guerra fu combattuta tra la popolazione nera autoctona e i discendenti degli ex schiavi statunitensi, che monopolizzavano il potere politico. L’Etiopia, invece, fu l’ultimo Stato africano a subire un dominio coloniale (quello italiano) per soli cinque anni (1936-1941): un periodo di tempo troppo breve – durante il quale furono investiti capitali, attuate bonifiche, costruite città – per pensare che ciò che avvenne dopo (carestia, desertificazione, colpo di stato del colonnello Menghistu e morte misteriosa del negus nel 1975, conflitti con la Somalia per il possesso dell’Ogaden) possa essere imputabile al colonialismo italiano [1]
 
Colonialismo e pace 
La verità è che l’armonia africana era imposta dalla pax delle potenze coloniali e venne meno al momento dell’indipendenza, in molti casi ottenuta con modalità pregiudizievoli per gli stessi interessi africani. Si consiglia, per restare in argomento, la visione del documentario del noto regista Gualtiero Jacopetti (†2011) Africa Addio, che illustrò molto bene i danni prodotti dalla decolonizzazione e, con grande preveggenza, ravvisò proprio in essa la causa principale dei drammi del continente africano (un film che, nonostante le infondate accuse di razzismo, vinse nel 1966 il David di Donatello). Infatti, nella gran parte dei casi – si pensi al Congo (1960) – l’estromissione degli europei dai gangli della vita politica, amministrativa e molto spesso economica, privò i nuovi Stati di quella «capacità di fare» e di quel bagaglio di esperienza e professionalità che avrebbero potuto essere efficacemente sfruttati anche nel nuovo contesto politico [2]. Nel 1970, ad esempio, Gheddafi espulse ben 20mila italiani, privando la Libia di una preziosissima borghesia economica e imprenditoriale. 
 
Odi tribali e dittatori 
Caduti i governi coloniali, le rivalità clanico-tribali, contenute dalla presenza coloniale, emersero in tutta la loro violenza. Si pensi alla secessione del Katanga, in Congo, o a quella del Biafra, in Nigeria, che causarono guerre con milioni di morti, o al genocidio Hutu-Tutsi, nel Ruanda degli anni Novanta del secolo scorso, o alla guerra civile somala e alla guerra del Darfur. D’altronde, i nuovi Stati decisero di conservare le frontiere delle vecchie colonie anche se non disponevano di personale militare, né di sistemi giuridici e competenze per poterli tutelare anche da aggressioni esterne. Spesso i beni dei coloni furono espropriati e nazionalizzati – come avvenne nella Rhodesia del Sud e in Kenya – e gli europei furono vittime di eccidi ad opera di formazioni paramilitari come la setta dei Mau Mau o la «Lancia della nazione», facente capo all’African National Congress di Mandela (†2013). Ancora oggi, ad esempio, in Sudafrica il governo dell’Anc sta portando avanti una campagna di progressivo spossessamento fondiario ai danni dei discendenti dei coloni europei, ricorrendo alla forza o facendo pressioni sul sistema bancario, attraverso la negazione dei prestiti o il pignoramento dei beni dati in garanzia degli stessi [3]
Molti dei leader africani, esaltati come intellettuali finissimi – si pensi a Jomo Kenyatta (†1978) – non erano altro che capi tribali che, improvvisamente, si ritrovarono alla guida di burocrazie complesse ed entità statali territoriali, senza saperle gestire. Ovviamente, il fatto che questi leader imitassero, nello stile e nei comportamenti, gli statisti europei, non mutava la sostanza delle cose: nel 1977, ad esempio, il dittatore della Repubblica Centrafricana, Bokassa (†1996), noto «cannibale», si fece addirittura incoronare imperatore in una cerimonia dal sontuoso stile napoleonico. Difficile dunque dar torto a Ian Smith (†2007), primo ministro della Rhodesia del Sud (odierno Zimbabwe) e guida del Fronte Rhodesiano, quando definì l’Organizzazione dell’Unità Africana come un «conciliabolo dei dittatori». È anche comprensibile perché, in un contesto del genere, personaggi come Mugabe, Siad Barre (†1995), Amin Dada (†2003) e Mobutu (†1997) non siano stati l’eccezione, ma la regola: essi sono quanto di meglio l’Africa sia riuscita a produrre in termini politici. 
 
Bedel Bokassa 
Gran parte degli Stati nati dall’indipendenza si diedero una forma monopartitica e dittatoriale, ma i leader furono privi della capacità di sfruttare il potere assoluto a beneficio delle rispettive popolazioni, anzi, tale potere fu lo strumento per annientare clan o tribù rivali. Si pensi al massacro dei Matabele, in Zimbabwe, perpetrato dagli Shona (tribù di Mugabe) o al genocidio dei Masai (in Kenya) ad opera dei Kikuyu, tribù di Kenyatta. Il Sudafrica ha conservato una parvenza di civiltà solo perché la minoranza boera è rimasta più a lungo che altrove al potere ma, dopo la fine dell’apartheid nel 1994, riesplosero i conflitti interetnici tra le due principali etnie bantu, gli Zulu e i Xhosa. D’altronde, il regime di apartheid sudafricano nasceva proprio dalla consapevolezza politica della classe dirigente anglo-boera di ciò che sarebbe avvenuto, se non si fosse tentato uno sviluppo separato delle diverse comunità abitanti il Paese. Le previsioni del primo ministro sudafricano Hendrik Verwoerd (†1966), docente di psicologia all’Università di Stellenbosh e ideatore dell’apartheid, furono profetiche, tanto che molti capi aborigeni si schierarono contro l’abolizione del sistema dello sviluppo separato, cosa molto spesso taciuta. Nel Sudafrica, lo zulu Buthelezi, capo del partito Inkatha, fu un sostenitore del sistema dell’apartheid, consapevole dell’eccessivo potere che avrebbe acquisito l’etnia avversaria Xhosa in caso di vittoria dei seguaci di Mandela. Infatti, non fu raro il caso di molti leader indipendentisti che furono uccisi dai loro stessi connazionali, come il congolese Patrice Lumumba (†1961). 
 
Il malgoverno 
L’incapacità dei nuovi politici africani, inoltre, apparve subito chiara. Al momento dell’indipendenza, gran parte degli stati africani aveva ricevuto in eredità dalle potenze europee città, infrastrutture, codici normativi, burocrazie integre, di cui avrebbe potuto fare buon uso – cosa che, però, non si è verificata. Le città, vere e proprie enclave architettoniche europee in terra africana, oggi sono in gran parte devastate dall’incuria e dalla proliferazione di slums, mentre in Sudafrica è diffusissimo il fenomeno dei plakkers, gli occupanti abusivi di suolo pubblico – con baracche o altre costruzioni improvvisate – all’interno di quelli che, un tempo, erano considerati contesti urbani civili. Uno scenario che, tra alcuni anni, potrebbe riproporsi in Europa. Lo stesso discorso può essere fatto per le enormi ricchezze del continente (fauna, flora, risorse minerarie), ancora allo stato integro al momento dell’indipendenza. Lo sfruttamento delle risorse africane (soprattutto minerarie) da parte dell’Occidente europeo, del resto, non rappresenta la causa principale dei mali, soprattutto se si considera che, attualmente, i maggiori investitori di capitali finanziari nel continente sono l’Arabia Saudita e la Cina (più di 2mila imprese cinesi presenti in Africa e circa 2 milioni di operatori economici cinesi) [4]
Ancora all’incapacità delle classi dirigenti africane è imputabile il disastro eco-ambientale del continente nero. Si pensi alla caccia indiscriminata a particolari specie animali (rinoceronti, elefanti) per ricavarne avorio o pelli da smerciare sui mercati internazionali (soprattutto quello arabo) o alla pesca di frodo, alla deforestazione selvaggia o allo sversamento di rifiuti tossici, la cui responsabilità ricade, principalmente, sui governi locali, assolutamente incapaci – per ragioni culturali connesse al sostrato tribale – di vedere nell’ambiente un bene da tutelare. Non a caso le politiche di tutela ambientale sono considerate dai governi africani, ancora oggi, residui della mentalità coloniale. L’interesse fondamentale è fare affari con i Paesi capitalisticamente avanzati, smerciando pellicce, minerali e quant’altro, per avere in cambio valuta pregiata oppure armi e risorse alimentari [5]. Esempi istruttivi di tale follia sono offerti dal governo della Namibia – fino al 1989 sotto amministrazione sudafricana – e dall’attuale governo del Sudafrica. Il primo può considerarsi responsabile del massacro di centinaia di foche al fine di ricavarne carne e pellicce, il secondo della progressiva desertificazione di regioni come il Transvaal. 
 
Colonialismo e sottoalimentazione 
Anche la tanto vituperata sottoalimentazione è, in buona parte, un problema connesso alla decolonizzazione: basti pensare che gran parte degli Stati africani si è progressivamente trasformata da esportatore di alimenti in importatore. Valgano gli esempi del Kenya e dello Zimbabwe, il cui fabbisogno alimentare dipende – per circa il 70% – dalle importazioni. Parallelamente, si assiste all’incapacità dei governi di rallentare il fenomeno della desertificazione – più di 100mila Kmq all’anno – in parte determinata da uno sfruttamento eccessivo ed errato del territorio, attraverso il ricorso a pratiche come il debbio e la salinazione. 
 
Criminalità e disoccupazione 
La criminalità dilagante e la disoccupazione fanno il resto. In alcune aree dell’Africa nera, infatti, la disoccupazione investe più dell’80% degli abitanti, mentre la mortalità infantile è del 30. L’unica cosa che, in Africa, cresce senza sosta è la popolazione, con tassi anche del 5% annuo [6]. Il regime demografico africano, infatti, è quello delle società primitive, caratterizzato da un alto tasso di mortalità, accompagnato da alto tasso di natalità, senza che il primo, però, annulli gli effetti nefasti del secondo, la causa del quale, in parte, va ricercata anche nell’ostilità perenne della chiesa cattolica ad ogni politica di controllo demografico e di diffusione, tra gli aborigeni, di pratiche anticoncezionali. Le epidemie (malaria, lebbra, meningite, colera e tubercolosi) contribuiscono a rendere più interessante il quadro complessivo fin qui descritto, e fanno dell’Africa un vero e proprio serbatoio epidemiologico [7]
 
Un disastro sociale 
Ovviamente, il rimedio degli aiuti finanziari agli Stati africani da parte delle potenze occidentali o di organizzazioni internazionali è assolutamente fallace, poiché gran parte di questi soldi contribuisce ad alimentare i conflitti militari interni o finisce nelle tasche dei politicanti locali, com’è dimostrato dai circa 180 miliardi di dollari riversati sul continente nero tra il 1975 e il 1985 e letteralmente dissoltisi al vento. Neppure il clan Mandela fu esente da accuse di corruzione, mentre le stereotipate accuse dei governi locali alle ex madrepatrie coloniali, in realtà, occultano veri e propri finanziamenti illeciti, molto diffusi soprattutto nel periodo della Guerra fredda quando – al di là di roboanti dichiarazioni di non allineamento – gli Stati africani facevano a gara per ottenere armi e risorse dall’Urss o dagli Usa. 
Un altro degli effetti esorbitanti della decolonizzazione è il proliferare della schiavitù delle popolazioni del luogo, costrette dai dittatori di turno – molto spesso anche con metodi brutali – ai lavori minerari o di piantagione. Genocidi e guerre sono alimentati anche dal fondamentalismo islamico che, soprattutto negli ultimi anni, sta prendendo piede e che, ben presto, consentirà il sorpasso del cristianesimo come religione della maggioranza degli abitanti non professanti culti animistici. Non a caso l’Isis ha costituito basi in Egitto e in Libia, mentre sono sempre di più i gruppi terroristici preesistenti affiliati, si pensi a Boko Haram in Nigeria [8]. Ma anche i culti animistici africani hanno la loro parte di responsabilità nel degrado socio-economico generale, con il loro seguito di assassinii (si pensi ai bambini albini), di cannibalismo e di sterminio di intere specie animali per scopi cultuali [9]
 
Miliziani del gruppo islamista nigeriano Boko Haram 
A tali culti, molto probabilmente, è imputabile anche la diffusione dell’Aids (patologia africana per eccellenza) che affliggerebbe circa il 40% della popolazione del continente con punte altissime in Sudafrica (circa 10 milioni). Infatti, a quanto pare, il virus si propagò tra le tribù del lago Vittoria a metà degli anni Settanta a causa dell’usanza di iniettare e ingerire sangue infetto della scimmia azzurra, ritenuto afrodisiaco secondo i riti locali. In un contesto del genere, quindi, non ci si deve meravigliare di dichiarazioni come quelle dell’ex presidente sudafricano, lo zulu Jacob Zuma, secondo il quale l’Aids andrebbe curato con qualche doccia in più, né del fatto che, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, stregoni kenioti consigliavano di curare l’Aids immergendo il pene in acido da batteria o stuprando fanciulle! 
Al di là dell’uso della tecnologia occidentale, la gran parte degli Stati nati dalla decolonizzazione sono, ancor oggi, entità fantasma, pertanto assolutamente incapaci di esercitare il pieno controllo del proprio territorio e delle relative popolazioni, anche ai fini del contenimento del massiccio flusso migratorio in direzione dell’Europa. Pensare che pagare questi governi risolva il problema è pertanto una follia. Poiché il tribalismo la fa da padrone, è vano illudersi di trattare alla pari con chi non è al proprio livello civile, né è una soluzione proporre ai Paesi africani modelli di sviluppo capitalisti e industriali, perché essi non hanno una storia simile a quella europea, soprattutto se si considera che, molto spesso, questa via di sviluppo si traduce nella distruzione sistematica del patrimonio ecologico-ambientale. 
 
Pie illusioni 
Dalle considerazioni svolte, emerge l’esito fallimentare che hanno avuto parole d’ordine come «autodeterminazione dei popoli», «panafricanismo» o «negritudine», enunciate negli anni Cinquanta all’indomani dell’inizio del processo di decolonizzazione. Molti dei problemi strutturali dell’Africa sono e resteranno insolubili e l’unica alternativa per l’Europa è cercare di farsi coinvolgere il meno possibile. L’estromissione violenta e repentina dell’homo europaeus da ogni responsabilità di governo, all’indomani dell’avvio del processo d’indipendenza, rende l’Europa di oggi non responsabile dei drammi che affliggono il continente nero. Al termine di questa disamina, resta solo da aggiungere, per dovere di verità, che la decolonizzazione non ha prodotto, ovunque, le stesse tragiche conseguenze registrabili in Africa, com’è dimostrato dai casi del Giappone, della Cina, della Corea e dell’India: Paesi che, nonostante i loro problemi interni, sono riusciti a mettersi al passo, dal punto di vista politico, economico e militare, con le potenze occidentali. 
 
Note: 
[1] Cfr. F. Fiorani – M. Flore, Grandi imperi coloniali, Giunti, Firenze-Milano 2005. 
[2] Sul processo di decolonizzazione africana, cfr. C. Coquery-Vidrovitch – H. Moniot, L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Mursia, Milano 1977. 
[3] Cfr. in proposito G. Bruno, Uccidere un Afrikaner non è reato: il genocidio bianco in Sudafrica, «Il Primato Nazionale», maggio 2018, pp. 21-23; T. Indelli, I Boeri: storia di una lunga e tenace «resistenza etnica», ivi, pp. 24-29. 
[4] Sul punto, T. Indelli, Europa e immigrazione. Precisazioni necessarie, Gaia, Salerno 2017. 
[5] Per questi aspetti, frutto anche delle personali esperienze dell’autore, cfr. S. Waldner, La deformazione della natura, Edizioni di Ar, Padova 1997. 
[6] Attualmente, la popolazione africana si aggira su circa 1 miliardo e 300 milioni di persone. Sull’esplosione demografica dell’Africa subsahariana, cfr. B. De Rachewiltz, Sesso magico nell’Africa nera, Basaia, Milano 1983. 
[7] C. Coccia, Un futuro senza avvenire? La generazione della decisione, Edizioni di Ar, Padova 2017. 
[8] Sull’avanzata dell’islam in Africa, cfr. S. Parent – A. Girard – L. Pettinaroli, Il cristianesimo in 100 mappe, LEG, Gorizia 2016. 
[9] Sui culti animistici africani, cfr. E. Volhard, Der Kannibalismus, Strecker und Schro¨der, Stuttgart 1939. 
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