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Battaglia di Caporetto
Battaglia di Caporetto: sconfitta e rinascita in un’unica parola 
di Ninni Raimondi
 
Nessuna battaglia è entrata maggiormente nel linguaggio comune come la dodicesima battaglia dell’Isonzo nella Prima guerra mondiale, meglio conosciuta come la “battaglia di Caporetto”. O, più comunemente, come la “disfatta di Caporetto”. 
Basta inserire banalmente il termine “Caporetto” su Google notizie, per vedere come ogni settimana ci sia almeno un titolo che vi faccia riferimento. Ovviamente come sinonimo di debacle, sconfitta, ritirata. Che sia riferita ai 5 stelle nel caso “Moscopoli”, alla sanità calabrese piuttosto che ai professori palermitani o al centrodestra molisano. Tanto per rimanere ai titoli delle ultime settimane. 
 
Eppure nonostante sia passato oltre un secolo e diversi vocabolari la rubrichino a “Disfatta, grave sconfitta” (ex multibus, il Dizionario Hoepli), la battaglia di Caporetto suscita ancora dibattito. Il centenario della Prima guerra mondiale non poteva non mettere a paragone della vittoria della guerra la sconfitta di Caporetto. Ridando slancio a una visione anche più ampia di quell’episodio, in un’Italia con il complesso della vittoria – il cui mito è palesemente osteggiato – ma con il culto della sconfitta. Appunto, l’Italia di Caporetto invece che di Vittorio Veneto, per tornare sulla scia dei fanti della Grande guerra. 
C’è da dire che ultimamente un libro di storia, poi ritirato, ha provato a ribaltare la storia. Riportava infatti come, a Caporetto, ci sarebbe stato lo sfondamento del fronte ad opera dell’esercito italiano ai danni degli austriaci. Un tentativo di sovvertire il morbo della sconfitta che ci attanaglia? Pare di no. Si tratterebbe di un errore clamoroso che evidenzia come la storia contemporanea sia oggetto misterioso non solo per gli studenti, ma anche per i professori. E i libri di testo, in questo, non aiutano, tesi a un riscrittura continua degli avvenimenti piuttosto che all’asciutto – e fecondo – racconto fattuale. 
 
Caporetto: dove si trova 
Partiamo dalla base. Quando si parla della battaglia di Caporetto facciamo riferimento a un territorio che, nel corso degli anni, è stato oggetto di profondi mutamenti. Non ci riferiamo alla sua morfologia, quanto al suo possesso. Passato infatti dall’Italia alla Iugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale, oggi Kobarid è un comune della Slovenia nord-occidentale. Ciò che non è cambiato è la sua posizione, nella valle del fiume Isonzo e la sua condizione di territorio di confine. Ieri goriziano con l’impero austro-ungarico a un passo, oggi sloveno con la vecchia madre patria alle spalle. 
Caporetto oggi è quindi Kobarid, e mantiene il ricordo di quanto successo nel Museo di Kobarid, o Museo di Caporetto come si legge nella sezione italiana del sito. Il suo scopo è quello di mantenere vivo il ricordo degli avvenimenti sul fronte isontino. Quella linea di confine che ha tagliato come una ferita blu il volto dell’Italia oltre un secolo fa. 
L’Isonzo è oggi fiume condiviso fra Italia e Slovenia. La sua posizione l’ha portato ad essere teatro naturale dello scontro fra italiani e austro-tedeschi, con le famose battaglie che dal giugno 2015 al novembre del 2017 hanno infiammato il fronte. Parliamo appunto delle battaglie dell’Isonzo di cui l’ultima, la dodicesima, è quella di Caporetto. 
 
La battaglia di Caporetto 
Dopo le sconfitte delle precedenti battaglie, nell’autunno del 1917 l’Austria-Ungheria cerca un colpo forte per ribaltare l’inerzia della guerra. La Russia, che si è sfilata intanto dal conflitto facendo venire meno il proprio fronte di guerra, ha consentito all’Impero di godere di un sostanzioso appoggio tedesco. Sul confine italiano vengono ammassati così uomini e mezzi, al comando del generale tedesco Otto Von Below. Il 22 ottobre il generale firma l’ordine di attacco e la mattina del 24 inizia l’offensiva contro l’Italia, in particolare contro la II Armata. 
Fra i reparti all’attacco anche i fucilieri di Erwin Rommel, la futura “volpe del deserto” della Seconda guerra mondiale. 
Il fronte italiano si snocciola come un rosario lungo l’Isonzo, dalla conca di Plezzo fino al mare. Si distacca dal tracciato solo per seguire i fianchi del monte Tolmino. Il fronte è difeso da diverse armate, ma dove si scatena principalmente il fuoco austro-tedesco è sulla testa di ponte del Tolmino, dove si trova la II Armata. L’attacco prevede il lancio di gas e granate, ad accompagnare le incursioni delle truppe d’assalto nemiche. Sono queste truppe la variabile impazzita che spezza la difesa italiana, disposta sul campo con una formazione troppo offensiva. 
L’eccessivo, e classico, sbilanciamento in avanti della difesa italiana viene mantenuto dal generale Capello, a comando della II Armata, nonostante gli ordini contrari di Cadorna. Tale assetto giocherà a favore delle truppe d’assalto avversarie, che si muovono aiutati da condizioni meteo favorevoli: poca visibilità, aggravata dai lanci dell’artiglieria austriaca. Sono le truppe d’assalto che mettono ‘in fuorigioco’ la prima linea, spezzandola. 
Ad aggravare la situazione il secondo punto di attacco, sulla conca di Plezzo. La II Armata si trova presa a tenaglia da nord e da sud, sfasciandosi. Come detto la maggior parte delle  truppe italiane erano ammassate in prima linea, così che una volta superata questa, agli invasori si apre la discesa in direzione di Cividale e di Udine. 
 
Le controversie sulla Battaglia di Caporetto 
Sulla conoscenza da parte dei comandi italiani delle grandi manovre avversarie si apre il primo punto controverso di Caporetto. Alla corrente che parla di totale sorpresa dell’esercito italiano, si affiancano storici che fanno rilevare come il generale Luigi Cadorna avesse già paventato il quadro e dato gli ordini conseguenti. Avrebbe infatti ordinato lo schieramento difensivo che Capello non avrebbe eseguito. 
Da questa controversia ne consegue anche un’altra, riguardante la ritirata di Caporetto. Chi sposa la tesi della impreparazione italiana, tende a vedere nella ritirata italiana i caratteri della tragedia, del caos assoluto: una scena alla Grande Guerra di Monicelli. Chi afferma il contrario ammette la ritirata caotica solo della II Armata, mentre il resto dell’esercito rientrava in modo ordinato. Solo questo spiegherebbe, poi, come l’esercito nell’arco di quindici giorni sia stato in grado di contrattaccare. 
Del resto Cadorna aveva preparato piani di ripiegamento sul Piave, in qualche modo dando avvio alla riscossa italiana. Frutti che verranno raccolti dal suo successore Armando Diaz. 
 
Le conseguenze di Caporetto 
La prima conseguenza di Caporetto è il senso di sconfitta che assurgerà poi a simbolo. A differenza di altre sconfitte – non troppo diverse nell’entità ma che sono state assorbite nel grande gioco della guerra – Caporetto diventa un trauma con cui fare i conti. A differenza di altri eserciti che in quella stessa guerra avevano subito sconfitte più cocenti, concedendo all’avversario molti più chilometri di suolo patrio, quello italiano viene messo sotto accusa. 
Le ripercussioni sono anche di carattere politico: cambiano il governo e i vertici militari. Il comandante supremo del Regio Esercito italiano, Luigi Cadorna, viene sostituito dal generale Armando Diaz. Cadorna paga il ‘tradimento’ di Capello che inficia i suoi piani, e la promozione di Badoglio che diventa così inattaccabile. Paga anche il famoso bollettino del 28 ottobre uscito dopo Caporetto, in cui accusa di vigliaccheria alcuni reparti. Un bollettino poi ritirato e modificato dal governo e che riapparirà in una terza versione, ancora più dura, ad opera di autore ignoto. Cadorna diventa così il perfetto capro espiatorio della tragedia di Caporetto. 
Eppure fra le conseguenze di Caporetto si può annoverare, non troppo forzatamente, la vittoria della guerra. Non solo per la svolta psicologica che fa nascere la sete del riscatto, la mistica del Piave e poi di Vittorio Veneto. Ma anche proprio da un punto di vista pratico. L’avanzata austro-tedesca si spinge infatti in profondità nel territorio italiano, ma paradossalmente troppo. Questo avanzamento non previsto – che non poteva portare la vittoria della guerra – ha comportato problemi logistici per le truppe straniere. Questo mentre gli italiani vedono arrivare i treni a poche decine di chilometri dal nuovo fronte, che rispetto al precedente è molto più corto e quindi più facilmente difendibile. 
Le truppe d’invasione si trovano quindi come propaggini che, invece di radicarsi, diventano rami secchi per la mancanza di approvvigionamenti. Rami secchi che vengono risaliti dall’esercito italiano e favoriscono l’attacco a tutta la pianta avversaria. 
 
La retorica di Caporetto e la rinascita di Vittorio Veneto 
Capace di scrivere l’epitaffio del nostro esercito, o di produrre la prova del riscatto, in questo Caporetto getta le basi per la vittoria della guerra. Per usare la retorica dannunziana, la morte di Caporetto precede la resurrezione dell’esercito italiano, che troverà il proprio simbolo pasquale nella battaglia di Vittorio Veneto. 
Sono due i luoghi simbolo della guerra italiana, così come sono due i fiumi legati a questi eventi. Se l’Isonzo vedrà passare lo straniero dopo Caporetto, il Piave sarà lo scoglio dove l’ondata austro-tedesca si schianterà. La battaglia di arresto avviene a poche settimane da Caporetto: trentacinque divisioni italiane respingono cinquantacinque divisioni avversarie lanciate sulle ali dell’entusiasmo. 
Con la seconda battaglia del Piave nel giugno 1918 – denominata da d’Annunzio “battaglia del Solstizio” – viene spenta l’ultima grande offensiva austro-tedesca e si apre la strada per la vittoria finale, annunciata dallo stesso Vate con il volo su Vienna. L’impero sta collassando, mentre l’esercito italiano ha fatto diventare l’onta di Caporetto un vessillo di riscatto da piantare in campo avversario. 
Quattro mesi più tardi si gioca la battaglia decisiva. Il monte Grappa e il Piave diventano i punti di scontro che porteranno l’esercito italiano a sfondare le linee nemiche e inseguire l’esercito avversario fino alla firma dell’armistizio. Il generale Caviglia fa il suo ingresso a Vittorio Veneto, e sarà quello il nome che verrà scelto per eternare il successo italiano nella guerra. Ma mentre Caporetto non troverà ostruzioni alla perpetrazione della sconfitta, il mito della vittoria sarà subito osteggiato. La banalizzazione dello sforzo italiano farà comodo per limitare il peso italiano al tavolo dei vincitori, dando vita a quella “vittoria mutilata” di cui parlerà d’Annunzio. 
 
Se il 4 novembre troverà risalto per tutto il periodo fascista, arrivata la Seconda guerra mondiale – e la sconfitta – sarà quella a essere presa a momento fondativo dalla Repubblica.  
Decenni di propaganda forzatamente pacifista hanno poi quasi criminalizzato quella vittoria, e trasformato i soldati da eroi e martiri a utili idioti del militarismo. Così arrivando al centenario della vittoria, scivolato in un anonimato rotto solo da singole iniziative benemerite.  
Ancora oggi un’Italia a testa bassa fa più comodo di una nazione dallo spirito guerriero. 
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