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Ast di Terni: un altro capitolo nella crisi dell’acciaio italiano 
di Ninni Raimondi
 
Ast di Terni: un altro capitolo nella crisi dell’acciaio italiano 
 
La crisi della siderurgia italiana non risparmia l’Ast di Terni. Le segreterie territoriali dei metalmeccanici, Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Ugl e Usb, insieme alle rsu hanno rifiutato il piano di depotenziamento dell’acciaieria proclamando lo stato di agitazione per tutto il sito. Molti penseranno che si tratta di una delle conseguenze della pandemia, ma in realtà non è così. La crisi è iniziata prima. L’Ast, (136 anni di storia e attualmente poco più di 2.300 dipendenti) ha subito un crollo verticale nell’ultimo anno: è passata dai 98 milioni di utili dell’anno fiscale 2017-2018 alla perdita di 1,8 milioni del 2018-2019. Per conoscere meglio questa realtà industriale è utile fare un passo indietro. 
 
Un passato glorioso 
Acciai Speciali Terni SpA è stata fondata nella città umbra nel 1884. L’Italia aveva bisogno di un polo siderurgico, e decise di puntare su Terni. Da quel momento l’azienda fu considerata strategica. Lo stato (insieme ad altre grandi banche) fu il garante di quest’operazioni. Questo colosso viveva grazie alle grandi commesse pubbliche e durante la crisi del 1929 era una delle controllate della Banca Commerciale Italiana salvata grazie al gruppo Iri. Per valorizzare meglio questo grande polo siderurgico Mussolini e Beneduce vollero inserirla nella Finsider insieme all’Ilva e alle acciaierie dell’Ansaldo. Mussolini, dunque, non pensava solo a salvare in maniera assistenzialista dei posti di lavoro ma puntava ad aggregare un settore che era strategico per l’intera nazione. Le bombe americane non bastarono a fermare lo stabilimento che nel dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta conseguì grandi successi. 
I primi scricchiolii si cominciano ad avvertire nel 1988 con la con la liquidazione della Finsider. Bastarono sei anni per privatizzare l’azienda e metterla nelle mani di una multinazionale. Nel 1994 avvenne la privatizzazione e qualche anno dopo la ThyssenKrupp avrà l’intera proprietà dell’Ast, con la denominazione di “ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni”. Furono anni difficili caratterizzati da alcuni cambiamenti ai vertici, l’azienda era però solida e capace di reggere la concorrenza globale almeno fino al 2014. Un annus horribilis per l’azienda che per salvarsi propone un maxipiano di incentivi all’esodo per gestire esuberi e raddrizzare i conti. Gli operai reagiscono con un sciopero che costringerà Ast a un fermo di produzione durato 36 giorni. Nel 2018 le cose cambiano e si registra una grande crescita dei volumi di lavoro. E veniamo ai giorni nostri. 
 
Un presente incerto 
Lo stato di agitazione promosso dai sindacati non ha meravigliato gli addetti ai lavori. La ThyssenKrupp aveva già manifestato l’intenzione di smarcarsi dal sito umbro. A gennaio infatti la commissione attività produttive della Camera ha convocato i sindacati proprio per discutere della difficile condizione del sito ternano. In quell’occasione è utile ricordare ciò che hanno dichiarato in una nota congiunta il segretario confederale dell’Ugl, Adelmo Barbarossa, e Daniele Francescangeli, segretario nazionale Ugl Metalmeccanici con delega alla Siderurgia. Secondo questi ultimi, “a fronte di una riorganizzazione della multinazionale e delle novità intercorse (bilancio della casa madre con perdite che sfiorano i 10 miliardi di euro)” era necessario dare “risposte a tutte le domande e le paure che i lavoratori”. Già a gennaio si parlava di scioperi. Poi la pandemia si è abbattuta come un tornado su tutte le imprese italiane. 
Oggi l’azienda fa trapelare la possibilità di una chiusura estiva, compresa tra l’ultima settimana di luglio e le prime due di agosto con la possibilità di un’eventuale prolungamento. Questa è stata la scintilla che riacceso la disputa tra l’azienda e i rappresentanti dei lavoratori che chiamano in causa le istituzioni. Tutte le sigle fanno un appello alla politica anche alla luce di una possibile cessione. “Riteniamo che il processo di vendita come ribadito – concludono Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Ugl e Usb – debba avvenire prima possibile, evitando un ulteriore indebolimento delle acciaierie di Terni nella fase transitoria, per questo riteniamo indispensabile l’intervento del Governo a garanzia di un asset strategico ed essenziale per il Paese”. 
 
C’è ancora un futuro per la siderurgia italiana? 
Al momento pare che il gruppo Marcegaglia sia interessato a mettere le mani sullo storico stabilimento. L’acciaieria di Terni, aveva spiegato a Il Sole 24 Ore Antonio Marcegaglia “è italiana e sinergica al nostro business, un’integrazione avrebbe chiare ragioni industriali”. La ThyssenKrupp al momento sembra cercare altri partner. I tedeschi difficilmente lasceranno ad altri concorrenti un asset così importante. 
 
Il futuro di un settore strategico come la siderurgia non può essere lasciato in balia del mercato. La vicenda dell’Ilva avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Lo stato, dunque, non può restare a guardare. Il problema, però rischia di essere più complesso. Difficilmente la presenza di un attore pubblico come la Cassa Depositi e Prestiti potrà contrastare in maniera efficace la concorrenza dei colossi extraeuropei. Che fare, dunque? Nella sopracitata nota dell’Ugl c’è una risposta a questa domanda: “La crisi della Ast di Terni, non deve essere inquadrata solo nell’ambito dei confini nazionali, ma nella ben più vasta crisi della siderurgia europea, di cui l’Ue ha una grande responsabilità”. Inoltre i sindacalisti sottolineano come “in ambito Ue, vanno salvaguardate le aziende siderurgiche europee dal dumping delle nazioni emergenti” ed elencano una serie di iniziative concrete un marchio di qualità/certificazione a tutela delle produzioni europee di acciaio. Ovviamente questo potrebbe essere un inizio. Purtroppo, però, nelle commissioni sono tutti impegnati a rimuovere tutto ciò che ostacola il libero mercato. Chi ha voluto il liberismo adesso pedali. 
Licenza Creative Commons  13 Giugno  2020
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