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Rinaldo Rigola: un sindacalista tra D’Annunzio e Mussolini 
di Ninni Raimondi
 
Rinaldo Rigola: un sindacalista tra D’Annunzio e Mussolini 
 
Il 27 gennaio 1954 la Camera dei Deputati commemorò un uomo che, si disse in quell’occasione, era stato «maestro» di una generazione di socialisti, oltre che fautore di concezioni sindacali «ardite e innovatrici». Il «maestro», da poco deceduto, era Rinaldo Rigola. Protagonista della storia sindacale del primo Novecento, ma anche un personaggio che esemplificò, con le scelte degli anni Venti e Trenta, l’atteggiamento tutt’altro che monolitico dei socialisti italiani verso il fascismo. 
 
Biellese, classe 1868, di estrazione operaia, cieco per un incidente di lavoro, Rigola svolse un’intensa attività. Pubblicista, dirigente della Confederazione generale del lavoro, aderì al socialismo fin dagli albori. Iscritto al Partito operaio nel 1886, dopo una parentesi anarchica entrò nel Partito dei lavoratori (poi Partito socialista, per cui fu eletto deputato) e, nel 1922, fu tra i fondatori del Partito socialista unitario. Nella sua militanza incarnò l’anima riformista del socialismo, avversata dai massimalisti tra i quali, nel primo scorcio del secolo, emergeva la figura di Benito Mussolini. 
 
Rinaldo Rigola tra riformismo e massimalismo rivoluzionario 
I percorsi di Rinaldo Rigola e Mussolini si sovrapposero una prima volta all’inizio del Novecento. Già emigrato in Francia, Rigola era sensibile ai problemi dei lavoratori italiani all’estero. Così, dopo le agitazioni operaie di Berna, Basilea e Ginevra del 1902-1903 (quando Mussolini era in Svizzera e si affacciava alla ribalta del socialismo italiano in quel paese), egli suggerì alle maestranze italiane di lasciare la Confederazione in risposta all’intransigenza del padronato locale. 
 
In seguito, tra Rigola e Mussolini non mancarono gli scontri. Il biellese aveva più interesse per le questioni economiche che per l’agitazione rivoluzionaria e sosteneva il primato del sindacato sul partito, ponendosi così in contrasto con il romagnolo. Costui, illustrando nel 1912 il programma massimalista, aveva infatti sostenuto lo sganciamento del partito dalla Cgl perché l’azione sindacale, pragmatica e di corto respiro, indeboliva piuttosto che rafforzare lo slancio rivoluzionario del proletariato, facendolo «sordo ai richiami ideali». 
Quando Rinaldo Rigola propose di estendere il campo d’azione della Cgl («feudo» riformista) alla politica, Mussolini allora insorse. Su Lotta di classe scrisse che, se la proposta di Rigola fosse stata accolta, la divisione tra partito e sindacato sarebbe scomparsa rendendo il Psi superfluo e minacciandolo di dissoluzione. Un secondo scontro con Mussolini, già direttore dell’Avanti!, si ebbe nel 1913, quando Rigola si oppose allo sciopero dei metallurgici che Mussolini, controcorrente rispetto a partito e sindacato, si era rifiutato di sconfessare. 
 
Dall’interventismo al sindacalismo dannunziano 
Allo scoppio della Grande Guerra Rinaldo Rigola passò dal neutralismo a un moderato interventismo. In un’intervista all’Avanti!, quando già Mussolini si accingeva a farsi interventista, si dichiarò propenso a un’azione per risolvere il problema delle nazionalità oppresse e agevolare l’evoluzione europea verso libertà, democrazia e disarmo. Dopo Caporetto, mentre si invocava l’«unione sacra», Rigola, attirandosi il biasimo dell’Avanti! e della direzione socialista, chiamò gli italiani alla lotta «per respingere l’assalitore», vista la necessità di resistere al nemico e dovendo i socialisti (qualunque cosa pensassero della guerra) difendere i proletari, prime vittime delle invasioni degli eserciti. 
Nel dopoguerra i cammini di Rigola e Mussolini tornarono a intersecarsi. L’ormai leader fascista decise infatti di sostenere l’ala «autonomista» della Cgl facente capo al biellese, sperando di provocarne la rottura con il Psi. Non era solo una mossa tattica. Il programma dei Fasci del 1919, in effetti, aveva assonanze con quello della Cgl rigoliana, incentrato sulla preferenza repubblicana, l’estensione del suffragio alle donne e una Costituente eletta per «categorie professionali». 
Rinaldo Rigola peraltro già guardava al corporativismo della Carta del Carnaro, redatta da Alceste De Ambris e rielaborata poeticamente da D’Annunzio. Egli fu infatti, con Angelo Oliviero Olivetti e De Ambris, tra i firmatari del manifesto della Costituente sindacale, un progetto unitario lanciato nel 1922 e basato sull’indipendenza dai partiti, il riconoscimento del «principio nazionale» e l’accettazione della Carta fiumana. L’iniziativa era collegata all’istituzione di un Comitato sindacale dannunziano e alla pubblicazione del settimanale La patria del popolo, il cui primo numero uscì poco prima della marcia su Roma. Fu proprio La patria del popolo ad appoggiare la Costituente, che si dotò della rivista Sindacalismo di cui Rigola assunse la co-direzione all’inizio del 1923. 
 
Il sostegno «critico» di Rinaldo Rigola al corporativismo 
Rinaldo Rigola, che inizialmente osteggiò il fascismo al potere, cambiò attitudine con l’evolversi del quadro normativo sui sindacati. La legge del 1926 sui rapporti collettivi di lavoro infatti, sanzionando il monopolio fascista della rappresentanza dei lavoratori, lasciava sussistere gli altri sindacati come «associazioni di fatto», svuotandoli dell’essenziale funzione di stipulare i contratti collettivi. La Cgl prese allora atto della situazione e si sciolse. 
La fine della Cgl fu per Rigola una svolta, che lo indusse ad avvicinarsi al regime e al progetto corporativo che esso andava attuando. Nell’inverno del 1927 il biellese e altri ex riformisti fondarono l’Associazione per lo studio dei problemi del lavoro e la rivista Problemi del lavoro, di cui Rigola fu direttore. In un documento inviato a Mussolini essi esprimevano una sostanziale accettazione del corporativismo, nel momento in cui fervevano i preparativi della Carta del lavoro, emanata il 21 aprile di quell’anno. 
 
L’adesione dei rigoliani ai princìpi corporativi era esplicita («saremmo in contraddizione con noi stessi», scrivevano, «se ci ponessimo contro lo Stato corporativo o la Carta del lavoro»), come lo era l’approvazione per aspetti della legislazione fascista quali la disciplina dei contratti collettivi e la magistratura del lavoro. Lo stesso sindacato unico era definito un «progresso» rispetto al pluralismo, colpevole di compromettere la capacità di manovra sindacale nelle contrattazioni. I rigoliani erano comunque intenzionati a svolgere una «critica costruttiva», anche per migliorare la politica sindacal-corporativa del regime. 
I redattori di Problemi del lavoro si occuparono così delle inadempienze del sindacalismo fascista, dell’esigenza di maggiori tutele per i lavoratori agricoli, dell’andamento incerto dei salari reali. Rammaricandosi a volte, essi un tempo riformisti, della preferenza che il regime accordava agli ex sindacalisti rivoluzionari, cui affidava ruoli dirigenziali nel sindacato. 
 
Il «caso Caldara» 
L’ammirazione di Rinaldo Rigola per la Carta del lavoro («un passo ardito sulla via delle riforme») e l’intenzione di contribuire alla riuscita dell’esperimento corporativo suscitarono diverse reazioni. Se da parte fascista, un po’ ottimisticamente, si vide una tendenza sempre più favorevole agli operai nei segnali positivi di Mussolini ai rigoliani, i comunisti li accusarono invece di essere passati al nemico. Il nome di Rigola tornò comunque alla ribalta nel 1934, quando l’introduzione delle corporazioni e l’esito plebiscitario delle elezioni di marzo indussero molti antifascisti a porsi il problema della lealtà al regime, per non perdere contatto con le masse e far germogliare i «semi» di cambiamento sociale del corporativismo. 
In quel frangente Emilio Caldara, già sindaco di Milano e come Rigola cofondatore del Psu, fu protagonista di un caso interessante. Caldara e il suo circolo, pur fedeli alle idee socialiste, proposero a Mussolini un «fiancheggiamento» del corporativismo, imperniato su una rivista da intitolare Il nuovo Stato. Sebbene il Duce avesse risposto a Caldara di limitarsi ad appoggiare l’operato di Rigola, tarpando così le ali al progetto, il «caso» fu sintomo della crescente attenzione di molti ambienti estranei al regime per le potenzialità del modello corporativo. Secondo De Felice, infatti, l’iniziativa coinvolse un vasto milieu di ex riformisti, massimalisti e popolari che le assicurarono il loro appoggio se fosse giunta a maturazione. 
 
Un «uomo di battaglia» 
Chiusa nel 1941 l’esperienza di Problemi del lavoro, Rinaldo Rigola si ritirò dalla politica e nel dopoguerra subì l’ostracismo dei sindacati antifascisti, che non gli perdonavano di avere fiancheggiato il regime. Fu riabilitato solo nel 1953, un anno prima di morire, quando gli fece visita una delegazione della «triplice». Uomo dell’incontro più che dello scontro, di sintesi più che di antitesi, Rigola meritò l’omaggio, nella già menzionata seduta della Camera, anche della «destra» neofascista. Un «uomo di battaglia», così lo definì il missino Leccisi, che al di sopra delle divisioni politiche aveva individuato, nel «riscatto» e nel «progresso» dei lavoratori, le ragioni fondamentali dell’azione sindacale. 
 
1 Maggio 2021