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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Il lockdown come le riserve degli indiani d’America 
di Ninni Raimondi
 
Il lockdown come le riserve degli indiani d’America: faremo la loro stessa fine? 
 
C’è un popolo che da sempre colpisce l’immaginario di tutti noi e la storia del suo sterminio merita una profonda riflessione. Soprattutto se pensiamo allo strano momento storico che stiamo vivendo. I “pellerossa”, o indiani d’america che dir si voglia, inizialmente furono stati descritti come dei crudeli selvaggi senza Dio, scotennatori e razziatori di cavalli. Fino a non molto tempo fa a questo popolo non era riconosciuto nemmeno lo status di essere umano e per molti yankees gli indiani avevano gli stessi diritti di un coyote zoppo. 
Sul loro scalpo spesso pendeva una taglia ad invogliare soldati o semplici civili alla caccia. Come dichiarò il Generale Philip Sheridan nel 1870 per motivare i suoi soldati alla caccia: “Il solo indiano buono è un indiano morto”. I Lakota delle praterie del Nord furono presto battezzati “Sioux”, termine che deriva dal francese “nadeuaissiù” che significa: “nemici”. Forse a nessuno interessava il fatto che il suo significato reale fosse invece “il Popolo”. Il che la dice lunga sull’abisso comunicativo che c’era fra le due civiltà. 
Gli uomini che si presentavano loro dinnanzi erano avidi di terra e d’oro. Avevano le sembianze del colone sempre pronto a recintare immensi spazi. Del predicatore che imponeva il suo Dio con ogni mezzo. Del mercante che barattava un bicchiere di “acqua che brucia” (whisky) in cambio delle preziosissime pelli di bisonte o di donne. C’erano poi le spietate “giacche blu”, i soldati regolari degli Stati Uniti, che si macchiarono dei peggiori crimini facendosi scudo della legalità che andavano portando in casa d’altri. Sono tristemente famosi i massacri avvenuti a Sand Creek, a Wounded Knee o i ritrovamenti di fosse comuni come quello avvenuto pochi giorni fa in Canada in una scuola allora gestita dalla Chiesa cattolica. 
 
Una civiltà distrutta da false promesse di libertà 
Gli indiani d’america erano una civiltà tribale organizzata in clan e avevano un loro codice di vita, non erano affatto dei selvaggi. Oggi fior fiore di pedagogisti stanno riportando in voga le pratiche Lakota nella cura dei “cuccioli d’uomo” e molti genitori moderni sono disposti a pagare un salasso per mandare i loro figli nell’asilo sull’albero, perché si sta iniziando a comprendere che vivere a contatto con la natura significa essere saggi. Gli indiani non chiedevano niente a nessuno, volevano soltanto vivere liberi nella propria terra come avevano sempre fatto. Amavano le proprie tradizioni ed erano devoti al “Grande Spirito”, nato su quel Paradiso rappresentato dalla Terra dei Padri. Quando i “pellerossa” iniziarono a vedere distrutto quel Paradiso inizialmente rimasero increduli. Si chiesero come si potesse accanirsi così barbaramente verso la Madre Terra. 
Le odierne condizioni di vita dei nativi americani confinati nelle riserve sono pessime. Alcolismo, suicidi giovanili, gioco d’azzardo e diabete sono le piaghe alle quali questo popolo sembra essere condannato da quando è stato “civilizzato”. E’ importante conoscere come e in che modo questa civiltà antichissima è stata spazzata via nel trentennio di guerre indiane 1860-’90. Comprendere questo ci aiuterebbe a difenderci dal globalismo che sta annientando le differenze tra popoli, i nostri valori e le nostre tradizioni. 
 
Una lenta e dolorosa agonia 
Numericamente inferiori ed equipaggiati di archi, frecce e qualche vecchio fucile spagnolo, questi guerrieri si sono battuti fino allo stremo prima di arrendersi. La resa non è stata immediata, non c’è stata nessuna sconfitta epocale su di un campo di battaglia. Si è trattato piuttosto di una lenta e dolorosa agonia. Il metodo yankee per aver ragione di questi indomabili guerrieri era semplice quanto efficace. Costruendo strade e ferrovie nelle valli fecero in modo di disperdere le mandrie dei bisonti, animale sacro per i nativi perché da esso traevano carne, pellicce per l’inverno e le pelli per le loro tende, i tipicissimi tipì. In aggiunta, il governo Usa aprì una caccia selvaggia che decimò il bovino, affamando il nemico indiano. 
Dove non arrivavano i moderni fucili a ripetizione o l’artiglieria pesante, arrivarono il whisky, la tubercolosi, gli inganni e le promesse di pace mai mantenute. Troppo maligne per un popolo così puro. Molti indiani d’america si lasciarono conquistare dal miraggio della vita comoda, finendo confinati nelle riserve a vivere di elemosina e rinunciando ai vecchi modi di vivere. Molti di essi, sospinti forse dalla vergogna per aver abdicato, iniziarono addirittura a collaborare con le “giacche blu”, aiutandole a scovare i loro vecchi fratelli rimasti liberi nelle praterie. 
 
Uno dopo l’altro i grandi capi o venivano eliminati o si consegnavano nelle mani del nemico, magari non perché si fossero convinti della bontà delle soluzioni offerte, ma perché sulle loro spalle gravava la responsabilità di donne e bambini, sempre più affamati ed ammalati. Le medicine per la Tbc, le gallette o le coperte promesse dagli yankee in caso di resa incondizionata diventarono un buon motivo per consegnare le armi, i cavalli e dire così addio alla libertà. Creare un problema e presentarsi come soluzione, non vi sembra famigliare? Ad attendere al forte questi grandi capi però, penso ai celebri Toro Seduto o a Cavallo Pazzo, non c’era il giardino dell’Eden ma la morte. Come disse Alce Nero nel 1879: “Quel giorno finì il sogno di un popolo. Era stato un sogno meraviglioso”. 
 
Siamo noi i “nuovi” indiani d’america? 
Cosa possiamo comprendere da questa triste storia? Ciò che i nostri occhi stanno vedendo sempre con maggior chiarezza è che il nostro confinamento (lo chiamano “lockdown”) è già iniziato e le riserve le abbiamo arredate da tempo con mobili che abbiamo imparato a montare da soli seguendo le istruzioni. Ogni tanto ci arriva l’elemosina di qualche governatore magnanimo sotto forma di bonus o apertura di libertà, ma poco altro. La tubercolosi non è più un problema ma ora dobbiamo fare i conti con altri virus per i quali esiste soltanto una cura se vogliamo salvarci. La loro cura. 
Nessuno caccia più i bisonti ma abbiamo ancora bisogno di mangiare e dunque di lavorare. Fuori dal pensiero unico non c’è spazio per esprimersi, tutto ciò che è diverso dall’omologazione mainstream viene silenziato, censurato o ridicolizzato.  
 
Ci stiamo dividendo, siamo impauriti come bisonti impazziti.  
E come animali feroci siamo pronti ad attaccarci l’un l’altro perché chi non la pensa come noi è da ritenersi un selvaggio da rieducare.  
Continueremo a cavalcare liberi nelle praterie e ad onorare la vita che ci è stata tramandata, perlomeno fino a quando la fame non morderà lo stomaco di chi ci è più caro.  
 
Ma se rimarremo uniti potremo superare l’inverno gelido delle Praterie del Nord e sperare in una nuova Primavera. 
 
16 Giugno  2021