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Ferragosto d’oro 
di Ninni Raimondi
 
Ferragosto d’oro: l’Italia di Pozzo trionfa alle Olimpiadi di Berlino 1936 
 
Per quanto riguarda il calcio, ad oggi rimane la nostra unica medaglia d’oro. Parliamo, ovviamente, dell’Italia di Vittorio Pozzo, che alle Olimpiadi di Berlino, il 15 agosto 1936, batté in finale l’Austria conquistando il gradino più alto del podio. Un’impresa sportiva memorabile, con gli azzurri che, pur non partendo con i favori del pronostico, dimostrarono – ancora una volta – di essere i più forti del mondo.    
 
L’Italia alle Olimpiadi di Berlino 1936 
Il Comitato olimpico aveva stabilito che le varie federazioni calcistiche non potevano convocare giocatori professionisti. In altri termini, l’Italia non poteva schierare nessuno dei fuoriclasse che, appena due anni prima, si erano laureati campioni del mondo (e che due anni dopo si sarebbero aggiudicati anche i Mondiali di Francia 1938). Questa regola, però, non valeva per gli allenatori. E così la nostra Nazionale ebbe facoltà di affidare la panchina al commissario tecnico Pozzo, il grande artefice delle nostre fortune calcistiche. 
 
Francia 1938: l’Italia in camicia nera vince il suo secondo mondiale 
L’80° anniversario della vittoria degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1934 è purtroppo passato sotto silenzio.  
Eppure la materia si presentava assai interessante, sia perché in quell’occasione si consacrò definitivamente una delle nazionali più forti di tutti i tempi, sia perché allora si manifestò tutto lo spirito combattivo, generoso e audace dei calciatori italiani. Pensiamo solo alla finale contro la Cecoslovacchia, vinta dai padroni di casa all’ultimo respiro, giocando buona parte della partita praticamente in 10 a causa dell’infortunio di Angelo Schiavio (al tempo le sostituzioni non esistevano). Eppure, nonostante il dolore, il centravanti del Bologna restò stoicamente in campo, segnando addirittura la rete decisiva nel primo tempo supplementare, quella che passò alla storia come il «gol dello zoppo».  
Insomma, di cose da raccontare e da ricordare ce n’erano, ce n’erano eccome. Ma la presenza ingombrante di Mussolini sugli spalti deve aver frenato la penna e raffreddato gli animi anche dei più fervidi appassionati di calcio. 
 
I calciatori posano con il Duce 
E se già il trionfo azzurro del ’34 si presenta come «politicamente scorretto», possiamo appena immaginare che cosa si avrebbe da dire o pensare del bis ai Mondiali francesi del ’38. Tanto più che la situazione politica del tempo si presentava ancor più incandescente: l’Italia, malgrado le sanzioni della Gran Bretagna e proprio della Francia, si era da poco conquistata il suo impero africano, il Wunderteam austriaco era stato assorbito dalla compagine tedesca così come l’Austria era stata annessa alla Germania nazionalsocialista, mentre la nazionale spagnola doveva dare forfait a causa dell’infuriare della sanguinosa guerra civile in cui, peraltro, italiani e francesi si affrontavano su opposte barricate. Quest’atmosfera politica particolarmente tesa, quindi, non poteva che avere ripercussioni anche sulla più importante kermesse calcistica del globo. 
 
Di questo se ne dovette subito render conto il tecnico Vittorio Pozzo 
Partiamo per Marsiglia – racconterà in seguito l’allenatore – dove ci attende la Norvegia. E qui piombiamo subito in piena tempesta. La partita viene avvolta immediatamente in uno sfondo polemico-politico. […] Nello stadio sono stati portati circa diecimila fuorusciti italiani, coll’intenzione e l’ordine di avversare al massimo la squadra azzurra. Il momento critico è quello del saluto: quando i giuocatori nostri alzeranno la mano per salutare alla moda fascista, deve scoppiare il finimondo. Io vengo avvisato di quanto ci attende. È una sfida diretta al nostro temperamento, al nostro carattere. Come comandante so con precisione quale sia il mio, il nostro dovere. […] Vado in campo colla squadra, ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto, ci accoglie come previsto una bordata solenne ed assordante di fischi, di insulti e di improperi. Pare di essere in Italia tanto le espressioni a noi rivolte echeggiano nell’idioma e nei dialetti nostri. […] Ad un dato punto il gran fracasso accennò a diminuire, poi cessò. Ordinai l’attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la dimostrazione riprese violenta. Subito: «Squadra, attenti! Saluto». E tornammo ad alzare la mano, come per confermare che non avevamo paura. 
 
La nazionale italiana, in maglia nera, saluta romanamente gli spettatori 
La partita, nonostante le previsioni, non fu agevole e ci vollero i tempi supplementari per aver ragione degli scandinavi. In ogni caso l’Italia si qualifica ai quarti di finale, proprio contro i padroni di casa. A Parigi l’accoglienza è fredda e ostile, come c’era da aspettarsi, tanto che Pozzo dovette caricare i suoi col motto «contro tutto e contro tutti». A ulteriore dimostrazione della totale mancanza di timore, l’Italia si presenta contro i Bleus in maglia nera, alla fascista (in principio il colore azzurro fu invece scelto in omaggio ai Savoia). La stampa francese, dal canto suo, non faceva che ripetere che l’Italia aveva trionfato nel ’34 grazie a favori arbitrali, perché quelli dovevano essere i «Mondiali di Mussolini». Insomma, stava ora ai transalpini ribaltare i ruoli e dar lezioni di calcio alla squadra campione del mondo, delle Olimpiadi (1936) e delle due ultime edizioni della Coppa Internazionale (1930 e 1935), antenata degli Europei. La partita, però, si sviluppa a senso unico: se la Francia tiene testa ai ragazzi di Pozzo nei primi minuti, soprattutto nella ripresa l’Italia si impossessa del gioco e schiaccia la retroguardia avversaria. Poi sale in cattedra Silvio Piola: doppietta e pratica archiviata. Finisce 3-1. 
 
In semifinale ci aspetta il Brasile, che viene dato per favorito. I verde-oro si erano addirittura permessi il lusso e l’arroganza di acquistare in anticipo i biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale. Il tecnico carioca inoltre, certissimo del successo, lascia riposare in panchina il fuoriclasse Leonidas, soprannominato il «diamante nero» nonché capocannoniere del torneo. Ma le cose non vanno per il verso giusto: la tattica «metodista» di Pozzo imbriglia i funamboli brasiliani, che non riescono a impensierire più di tanto la difesa italiana. Poi Colaussi porta in vantaggio gli azzurri, che poco dopo possono beneficiare di un calcio di rigore. Si appresta a battere Meazza, la stella della squadra. Ma, proprio al momento del tiro, gli si rompe l’elastico dei pantaloncini, e il capitano della nazionale rischia così di rimanere in mutande. Nonostante tutto, tenendosi con una mano i malconci calzoncini, il «Balilla» realizza il tiro dagli 11 metri. La rincorsa è goffa ma il risultato non cambia: 2-0. I verde-oro si riversano quindi in attacco, riuscendo nel finale ad accorciare le distanze, ma la vittoria arride all’Italia. Non manca neanche la «rosicata» finale dei brasiliani: pregati da Pozzo di cedere i biglietti aerei ai suoi giocatori (al tempo c’erano pochissimi voli), i carioca rifiutano stizziti, sicché gli azzurri dovranno raggiungere Parigi in un treno affollatissimo e con carenza di cuccette. 
 
Era una squadra devastante, quella italiana del ’38, una vera corazzata. Guidata dal «tenente» Pozzo, l’alpino che allenava la squadra con stile militaresco (inventò lui i «ritiri»), illuminata dal genio e dalla tecnica sopraffina di Meazza, micidiale nelle ripartenze di Amedeo Biavati, ala destra famosa per il suo «passo doppio», e inesorabile nel centravanti Piola, l’attaccante più prolifico nella storia del calcio italiano. Proprio Piola e Meazza descrivono al meglio le due anime della nazionale. Se il piemontese Piola si distingueva infatti per rigore, frugalità e riservatezza, il milanese Meazza era invece un vero viveur, Don Giovanni di chiara fama e festaiolo impenitente. La bellezza di quell’Italia sta anche qui, in questi uomini dai caratteri così diversi che però, una volta in campo, combattevano e vincevano insieme, come un sol corpo. La creazione di un forte spirito di squadra, non a caso, fu la costante preoccupazione di Pozzo e, quindi, anche il suo successo. Il più grande ciclo del calcio italiano si fondava pertanto su questi irrinunciabili princìpi sportivi: agonismo, coralità, tenacia, generosità, disciplina e aiuto reciproco. 
 
Non può quindi sorprendere che la «squadra di Mussolini» abbia poi vinto anche la finale. A Parigi infatti, contro l’Ungheria, finisce 4-2. Ma il risultato non rende adeguato conto dello sviluppo della partita, che vide invece un predominio quasi assoluto degli azzurri. Il palleggio elegante della compagine magiara, antenato del tiqui-taca, viene infatti presto sopraffatto dalla mediana italiana. Il gol del 2-1 poi, che si può ancora ammirare in filmati d’epoca che girano su youtube, fu un vero capolavoro: fitta rete di passaggi nell’area avversaria e bordata conclusiva di Piola. E alla fine della partita, nonostante i pregiudizi politici, fu tutto lo stadio ad applaudire in piedi i campioni del mondo. Che vinsero contro tutto e contro tutti. 
Non potendo chiamare i calciatori professionisti, Pozzo è costretto ad allestire una selezione di studenti universitari: giocatori semisconosciuti che giocavano nelle serie minori, e la cui età media era di 21 anni. Con questa banda di esordienti, l’Italia si presenta dunque alle Olimpiadi di Berlino 1936, destinata ad affrontare compagini ben più quotate della nostra. Gli errori, peraltro, non sono ammessi: essendo una competizione a eliminazione diretta, chi sbaglia torna a casa. Dopo il duro ritiro di Merano, l’inizio della spedizione è piuttosto deludente: gli azzurri fanno una fatica del diavolo a imporsi sui modesti Stati Uniti e ad accedere ai quarti di finale. A segnare la rete decisiva è Annibale Frossi: velocissimo e con spiccate doti da rapace d’area, l’ala friulana soffriva di una forte miopia, e per questo giocava con gli occhiali da vista. Sarà lui il vero mattatore della Nazionale, nonché capocannoniere del torneo con ben sette marcature. 
 
Uno spirito d’acciaio 
Dopo la non esaltante vittoria contro gli Stati Uniti, e le numerose critiche piovute addosso ai nostri, Pozzo striglia e ricompatta i suoi ragazzi: «Con gli Stati Uniti effettivamente vincemmo, ma malamente: per uno a zero», racconterà poi Pozzo. «Per una rete di Frossi, l’opportunista, nel secondo tempo. Di istruzioni ne erano state date e ribadite a iosa, ma, come succedeva spesso in squadre grandi e piccine, sul campo ognuno aveva fatto a modo suo. Presi cilindro. Ed in un rapporto appositamente convocato nella veranda della nostra casetta il giorno dopo, battei i pugni sul tavolo. Dissi che non ero abituato a parlare a vanvera, e che, se qualcuno aveva l’intenzione di fare quello che gli pareva e piaceva, che me lo dicesse subito: io avrei piantato baracca e burattini, e me ne sarei tornato a casa, dove mi attendevano compiti ugualmente impegnativi e più soddisfacenti forse. Fui preso sul serio. La prova provata la ebbi all’incontro seguente, allo Stadio Momsen, contro il Giappone. Effettivamente, i ragazzi nostri sapevano giuocare. Si erano adattati al regime di vita che io avevo prescritto. […] Aveva bisogno di una strigliata, la Squadra, per applicarsi con rigidità e fermezza ai temi che doveva svolgere. Lo fece, contro il Giappone, questo. Lo fece così bene che ne saltò fuori un risultato di otto a zero. Fu da quel momento che l’undici nostro prese a lavorare veramente come una squadra. La base del nostro successo fu gettata quel giorno».    
Superato con agio il Giappone (reduce da una vittoria a sorpresa contro la forte Svezia), in semifinale l’Italia incontra la Norvegia, che viene data per favorita – anche perché schiera una vera e propria Nazionale maggiore – e ha appena eliminato i tedeschi padroni di casa. Nella suggestiva cornice dell’Olympiastadion, davanti a 90mila spettatori, gli azzurri si trasformano in undici leoni: costringono gli scandinavi ad andare ai tempi supplementari, dove poi il solito Frossi segna la rete che decida la gara. È 2-1 e l’Italia vola verso la finale delle Olimpiadi del 1936. 
 
La chitarra di Jesse Owens 
A questo punto, prima della partita decisiva contro la temutissima Austria, scende in campo con gli azzurri un alleato inaspettato. A riportare questo aneddoto sarà proprio Pozzo: «In finale delle Olimpiadi! Contro l’Austria! Chi se lo sarebbe mai sognato? Di nuovo il nervosismo che tenta di impadronirsi dei nostri ragazzi! Giungere fin lì e poi perdere? Questo no, vero? In quei cinque giorni di attesa, fra la semifinale e la finale, ad aiutarci fu Jesse Owens. Sì, proprio lui, il negro che aveva vinto o stava vincendo i 100 metri, i 200, il salto in lungo, la staffetta 4 per 100. Abitava nel villaggio olimpico in un’altra casetta, a due passi da noi. Veniva a visitarci, dopo cena, con una chitarra ed una fisarmonica. E suonava, e ballava la danza del ventre. Gli piaceva la nostra compagnia, perché diceva che gli italiani ridevano sempre, e così rumorosamente». 
 
Alle Olimpiadi del 1936 il mondo parla italiano 
Il 15 agosto del 1936, sempre all’Olympiastadion di Berlino, che per l’occasione registrò il tutto esaurito, gli italiani conquistano l’ambito oro olimpico ai danni del Wunderteam austriaco. A portare in vantaggio gli azzurri ci pensa il solito Frossi al 70’, veloce e abile a sfruttare una respinta del portiere avversario. Gli austriaci, però, pareggiano con Kainberger neanche dieci minuti dopo. Ancora una volta, la partita verrà decisa ai tempi supplementari. Ed è sempre lui, Annibale Frossi, a chiudere i giochi al 92’. Racconterà poi lo stesso protagonista: «Centro di Gabriotti, magnifica finta di Bertoni che simulò un’entrata di testa; irrompendo in piena corsa mi trovai il pallone sul sinistro. Sono sempre stato scarso e incerto su quel piede; ma quella volta colpii duro e secco: pallone in rete, e più tardi il nostro tricolore si alzava superbo sul pennone più alto dello stadio, nel silenzio solenne di centomila e più spettatori». L’Italia è, ancora una volta, sul tetto del mondo. 
 
17 Agosto  2021