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La giuspubblicistica italiana degli anni Trenta 
di Ninni Raimondi
 
La giuspubblicistica italiana degli anni Trenta 
 
Nel linguaggio contemporaneo con il termine «regime» si intende un sistema politico di tipo autoritario. È con esso che si fa riferimento al periodo che va dal 1925-1926, anni in cui entrano in vigore in Italia le c.d. «leggi fascistissime», al 25 luglio 1943. Tuttavia, se si studia con attenzione la giuspubblicistica italiana degli anni ’30 del secolo scorso, in particolare il saggio di Maurizio Maraviglia (1878-1955), uno dei fondatori del movimento nazionalista e, dal 1939, senatore del Regno, intitolato Caratteri del regime fascista, ne emerge un concetto di natura primariamente metagiuridica. 
 
Veloce sguardo alla giuspubblicistica italiana degli anni Trenta 
Si trattava, infatti, «dello spirito politico che lo Stato conserva sin dalla sua instaurazione di fatto». Una definizione non molto diversa da quella fornita da Carlo Costamagna (1880-1965) per il quale il regime era quell’elemento che caratterizzava lo Stato da un punto di vista «filosofico e politico», o addirittura, come ebbe a scrivere anni dopo, schiettamente «spirituale». Ad un sommario sguardo, dunque, la riflessione sull’idea di regime degli anni Trenta sembra dipanarsi per intero sui sentieri del metagiuridico e, pertanto, pare ancora molto lontana dagli approdi mortatiani del 1940, anno di pubblicazione de La Costituzione in senso materiale. Il regime è, dunque, «programma di vita, inteso concretamente, cioè come volontà definita e non come massimario arido e astratto», è «sistema dei rapporti di potenza». 
 
Ora, da queste voci si possono già trarre alcune interessanti considerazioni. La prima e più evidente è che l’esistenza di un fine politico dello Stato pare ormai un dato acquisito: la critica al secolo XIX, considerato come “L’epoca delle neutralizzazioni e spoliticizzazioni”, per parafrasare il titolo di una celebre conferenza di Carl Schmitt (1888-1985) del 1929, aveva fatto breccia segnando la fine della pretesa neutralità dello Stato, cardine concettuale della Rechtsstaatslehre ottocentesca. La seconda consiste nella oggettiva difficoltà di conciliare la oramai assunta politicità dello Stato con la natura giuridica del suo ordinamento costituzionale. Sul punto, mentre alcuni autori, come Emilio Crosa (1885-1962), sulla base del noto insegnamento orlandiano, sostengono la permanente validità delle categorie dogmatiche della tradizione pubblicistica (sua l’idea del Diritto Costituzionale quale scienza della statica e dinamica costituzionale), altri, tra i quali spicca ancora una volta il Costamagna, si scagliano contro la pretesa «giuridicista» di considerare il regime quale pura «forma» per cui, lo sviluppò magistralmente il Chiarelli (1904-1978), Presidente della Corte costituzionale italiana dal 1971 al 1973, esso non poteva non assumere un intrinseco contenuto giuridico, in quanto sono le istituzioni giuridiche che lo caratterizzano, traducendo in atto delle aspirazioni o degli ideali che trovano, attraverso il diritto, la loro realizzazione storica. 
 
Per questa seconda categoria di autori, quindi, è agli organi statali che appartiene il compito di portare a realizzazione concreta gli scopi politici dello Stato ed è dunque in queste ultime, nel loro complessivo atteggiarsi e nelle relazioni che esse costruivano tra loro, che va rinvenuta una corretta interpretazione del concetto di regime in senso giuridico. Quest’ultimo andava, allora, inteso come l’insieme degli istituti giuridici coordinati allo scopo dell’attuazione di una determinata concezione politica dello Stato e della società. È evidente la rilevanza che questa riflessione ebbe per la teorizzazione mortatiana e per l’idea di Costituzione in senso materiale. In fin dei conti, lo spazio che si colloca tra l’elaborazione politica prodotta dalla società e la sua cristallizzazione in istituzioni giuridiche è esattamente lo spazio della Costituzione. 
 
14 Gennaio  2022