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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Legge 6/2004? Un martirio 
di Ninni Raimondi
 
Legge 6/2004? Un martirio 
 
Tutti sanno che nel caso di sospetta commissione di reati non è lecito ritenere colpevole la persona e punirla con limitazioni durevoli del diritto a disporre della propria vita e dei propri beni se e finché la colpevolezza non sia definitivamente provata attraverso equo giudizio. 
E che per essere equo il giudizio deve offrire anzitutto in ogni sua sede e grado piene garanzie di difesa e di terzietà dei giudici. 
 
Ad analoga e maggior ragione dunque in uno Stato di diritto non si deve poter decretare la privazione giudiziaria di quei diritti fondamentali per sospetta malattia mentale senza che ne siano accertate con garanzie di pari completezza e rigore la sussistenza effettiva e le necessità obiettive conseguenti. 
Sia nella prassi psichiatrica italiana preriforma, sia in quella riformata i provvedimenti restrittivi delle libertà personali potevano e possono venire invece assunti, anche all’insaputa dei destinatari, direttamente sulla base di attestazioni dello stato di malattia mentale fornite da operatori sanitari o sociali al giudice o sindaco tecnicamente imperiti.  Che come tali si limitano a ratificarli in fiducia, e rimangono anche i destinatari e decisori di eventuali ricorsi o reclami contro i propri stessi provvedimenti. 
 
Mancano cioè le garanzie costituzionali primarie dell’equo giudizio: la nomina obbligatoria di un difensore di fiducia  o d’ufficio e di consulenti tecnici di parte (ctp), il contraddittorio pubblico ed il ricorso a giudice terzo. 
Tutte le altre distorsioni possibili nei provvedimenti sono subordinate e conseguenti a questa clamorosa violazione dei diritti umani garantiti univocamente dall’ordinamento italiano, comunitario europeo ed internazionale. 
E perciò reclamabile a tutti questi livelli, trattandosi di diritti insopprimibili ed irrinunciabili, poiché non vi è altra garanzia concreta possibile della correttezza, competenza ed affidabilità dell’agire degli operatori sanitari, sociali e giudiziari coinvolti nella decisione. Che non possono certo essere presunte in materia di manipolazione della vita e dei beni di soggetti deboli. 
 
Tanto più in presenza notoria di una casistica di abusi specifici e del quadro sopra delineato di devianze dell’assistenza psichiatrica. 
L’interdizione e l’inabilitazione, istituti classici sperimentati di tutela del soggetto totalmente o parzialmente incapace per infermità mentale di provvedere personalmente alle proprie necessità, offrono almeno migliori garanzie istruttorie e prevedono maggiori controlli anche sull’operato rispettivamente dei tutori e curatori nominati dall’autorità giudiziaria. 
 
La privazione o compressione illegittima del diritto di difesa si accentua invece praticamente fuori controllo nei provvedimenti legati alla riforma psichiatrica ed alle sue carenze. A cominciare dal Trattamento sanitario obbligatorio, Tso, previsto dalla legge 180/78, col quale il sindaco dispone su segnalazione il ricovero forzato di un soggetto (che viene così catturato, rinchiuso e sottoposto a sedazione ed altro anche contro la propria volontà). 
Anche se una provvida sentenza ottenuta nel 2010 dall’avvocato pordenonese Gianni Massanzana ha perciò stabilito che il sindaco non possa firmare l’ordinanza di ricovero sulla sola base della richiesta specialistica senza procedere ad una verifica tecnica autonoma della sua veridicità. 
 
Difetti evidenti della legge 6/2004 
Non così ancora nell’amministrazione di sostegno, ideata ed introdotta dagli stessi ambienti della riforma psichiatrica nel codice civile con la legge n. 6/2004 presentandola come una forma di tutela giudiziaria più blanda, rispettosa ed elastica dell’interdizione e dell’inabilitazione. 
Che come tale potrebbe funzionare, ed in molti casi funziona, benissimo se la legge non contenesse delle trappole logico-giuridiche che consentono anche di utilizzarla brutalmente come strumento di interdizione impropria su qualsiasi soggetto debole ed in violazione radicale dei diritti di difesa e dell’equità del giudizio. 
 
La norma (art. 404 c.c.) estende infatti smisuratamente ed al di là dell’infermità mentale le categorie di persone sottoponibili al provvedimento, perché stabilisce che il giudice tutelare possa sottoporre ad Amministratore di sostegno, su richiesta o segnalazione, la persona afflitta da una “infermità o menomazione fisica o psichica” che le renda “anche” parzialmente e temporaneamente impossibile provvedere ai suoi interessi. 
Una formula che può dunque sembrare adeguata ed elegante, ma è invece così incautamente ed anti giuridicamente generica da poter coprire casi che vanno dall’estremo dell’infermità psichica con incapacità permanente totale (propria dell’interdizione) o parziale (propria dell’inabilitazione) sino al semplice stress, alla comune depressione od al banale impedimento fisico temporaneo per una qualsiasi malattia od esito d’incidente che impediscano di far la spesa e pagare le bollette. 
E non offre infatti la minima certezza giuridica sulla tipologia ed il grado dell’infermità e dell’incapacità necessarie e sufficienti a limitare le libertà della persona (perché di questo si tratta)sottoponendone la vita ed i beni ad un’amministrazione di sostegno. 
 
Che può diventare così una forma di limitazione o privazione dei diritti umani attivabile per legge, e su semplice segnalazione ritenuta credibile dal giudice fuori da rituale contraddittorio, a peso di qualsiasi persona che possieda beni mobili od immobili trovandosi in difficoltà reali o presunte, ed anche temporanee, ad amministrarli. 
Nel concreto, quello che sta perciò documentatamente accadendo a Trieste ed altrove in Italia in maniera episodica o sistematica è che: vengono sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi; il provvedimento viene assunto contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate di alcuni operatori sociosanitari; il tribunale non affida il ruolo di amministratore di sostegno a parenti o persone amiche adatte e gratuitamente disponibili, ma ad avvocati, commercialisti od ai predetti operatori, ed anche con onorari a spese dell’amministrato; tali amministratori ricevono dal giudice poteri totalitari, analoghi a quelli dell’interdizione, che giungono a privare l’asserito “beneficiario” non solo dell’amministrazione dei suoi beni ma anche della gestione della propria salute e addirittura della corrispondenza. 
Si tratta di violazioni radicali ed anticostituzionali dei diritti fondamentali alla difesa ed al giusto processo, destinate a particolari soggetti deboli in violazione del principio di eguaglianza dei cittadini. E tali da consentire anche arbitrii concreti gravissimi che trasformano i “beneficiari” teorici di sostegno a vitti me inermi di abusi intollerabili. 
 
Decreti di nomina con cui il giudice tutelare abbia conferito all’amministratore di sostegno poteri che incidono su diritti e libertà inviolabili della persona senza garantirle la difesa ed il contraddittorio nel giudizio, nonché per violazione di legge quando tali poteri risultino eccessivi identificandosi con quelli propri dell’interdizione e dell’inabilitazione. 
Nelle forme d’abuso primario tipiche sinora riscontrate, l’assegnazione dell’amministrazione di sostegno risulta originata da richieste di operatori psichiatrici o sociali che drammatizzano la situazione del soggetto e ne screditano gli eventuali famigliari o fiduciari. 
Il giudice tutelare accoglie queste relazioni come veritiere senza controperizia, non riconosce alla persona il diritto alla difesa tecnica in contraddittorio tramite un avvocato e periti di parte, e le impone senza o contro sua espressa volontà, o a sua insaputa, un amministratore di sostegno estraneo. 
 
Ed il giudice assegna  poteri che incidono sulle libertà fondamentali della persona (di amministrarsi, ricevere la corrispondenza, decidere sulle cure mediche), sino a coincidere con quelli previsti per l’interdizione o l’inabilitazione. Che invece competono al Tribunale collegiale d’iniziativa del Pubblico Ministero, e con garanzia di difesa in contraddittorio. 
L’amministrazione di sostegno risulta così trasformata arbitrariamente in interdizione od inabilitazione impropria e sottratta alle garanzie difensive. E senza contestazione efficace del Pubblico Ministero, che ha l’obbligo di intervenire anche nella nomina dell’amministratore di sostegno e proporre reclamo quando il decreto del giudice tutelare risulti contrario alla legge. 
Il giudice tutelare ha il potere e l’obbligo di impedire gli abusi verificando le relazioni periodiche degli amministratori, inclusi rendiconti, stime di beni, modalità di vendita e relazioni di operatori sanitari, psichiatrici o sociali. Ma nel concreto non ne ha il tempo né i mezzi, e finisce per autorizzare o lasciar compiere anche operazioni quantomeno discutibili. 
 
In sostanza, uno strumento giuridico di assistenza moderata a soggetti deboli viene invece utilizzato coercitivamente in violazione dei loro diritti fondamentali, di libertà, proprietà e difesa. A lucro di terzi e con le necessarie complicità ambientali attive e passive. 
Il giudice tutelare non può dunque far coincidere integralmente i poteri dell’amministratore di sostegno con quelli del tutore o del curatore, che come tali possono venire assegnati soltanto dal Tribunale con gli istituti e le procedure dell’interdizione e dell’inabilitazione. 
Se i poteri dell’amministrazione di sostegno si limitano a quelli di una blanda assistenza ordinaria non occorrerebbe garantire all’assistito la difesa legale, che diventa invece obbligatoria se intaccano la sua capacità giuridica di agire, configurandosi altrimenti violazione di diritti umani fondamentali garantiti dall’ordinamento, e dunque nullità originaria ed assoluta dell’atto. 
Che come tale può essere fatta valere in ogni momento e sede, incluse quelle comunitarie ed internazionali: si vedano anche i principi corrispondenti introdotti nell’ordinamento dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13.12.2006 e ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009. 
 
Questo significa che decine, se non centinaia o più, di decreti di nomina di amministratori di sostegno, a Trieste ed altrove, risultano giuridicamente nulli, e con essi i poteri e gli atti conseguenti degli amministratori. 
L’interrogativo è a questo punto se l’Autorità giudiziaria, ed a quali livelli, intende provvedere d’ufficio ad interrompere ed annullare le procedure di nomina illegittime liberandone gli amministrati, o se occorreranno valanghe di ricorsi individuali dei danneggiati, o class actions. 
 
Quale soluzione quindi? 
Ne azzardero una 
 
Abolizione della interdizione e dell'inabilitazione di Stato 
Premessa 
Paolo Cendon, professore ordinario di diritto privato presso l’Università degli studi di Trieste, già autorevole promotore della normativa che ha introdotto nel nostro ordinamento l’amministrazione di sostegno, ha lanciato di recente una importante proposta per l’abrogazione degli istituti di protezione dell’interdizione e dell’inabilitazione. 
La suddetta proposta, che in realtà è un vero e proprio progetto di legge, vede peraltro già numerosi sostenitori del mondo universitario, della magistratura e dell’associazionismo. 
 
D’accordo sull’abrogazione dell’inabilitazione 
Si ritiene difatti che l’inabilitazione possa considerarsi ben assorbita nel nuovo, flessibile, istituto dell’amministrazione di sostegno. Le funzioni attualmente conferite ai curatori delle persone inabilitate possono essere similmente predisposte per mezzo dell’amministrazione di sostegno. 
Ed in effetti «se tra amministrazione di sostegno e interdizione vi può essere un certo attrito, con l’inabilitazione si giunge quasi ad una vera e propria sovrapposizione, totale e reale». 
 
Difatti, il nuovo istituto fornisce sostegno a favore a coloro che sono impossibilitati ad agire definendo un grado di protezione che può essere “confezionato” su misura del soggetto in funzione delle possibilità di provvedere (per esemplificare, dall’1 al 99%) ai propri interessi. 
 
Favorevoli ad abrogare l’interdizione se si introducono adeguate garanzie 
L’istituto dell’interdizione, invece, prevede una protezione di quanti, trovandosi in «condizioni di abituale infermità di mente» sono incapaci totalmente e definitivamente (sempre per esemplificare, 100%) di provvedere ai propri interessi. Pertanto l’Associa­zione tutori volontari ritiene che si debba porre adeguata attenzione nel caso si determinasse anche l’abrogazione dell’istituto dell’interdizione. 
 
In quest’ultimo caso si reputa, in buona sostanza, che occorra introdurre alcune ulteriori garanzie a favore del soggetto non autosufficiente e total-mente e definitivamente incapace (per esempio, persona con handicap intellettivo grave) ritoccando le norme relative all’istituto dell’amministrazione di sostegno.  
 
È utile accennare al fatto che l’amministrazione di sostegno è nata al fine di integrare e migliorare il panorama degli istituti di tutela a favore delle fasce più deboli della popolazione. In particolare è principalmente sorta per fornire adeguate finalità di protezione per le persone con problemi di tipo psichiatrico.  
Difatti l’interdizione per taluni casi si poneva, e si pone, in maniera troppo rigida ed eccessiva, mentre l’inabilitazione risulta di per se stessa inadeguata ed inefficace per tutelare al meglio aspetti della persona diversi da quelli patrimoniali (ove i veri tutelati in realtà – sovente – risultano essere i potenziali eredi). 
 
Mi preme ricordare che tutela e curatela si dimostrano ben poco adatte a garantire i diritti della persona, perché costruite sulla gestione del patrimonio e caratterizzate da una rigidezza eccessiva  
(da un lato, totale incapacità, dall’altro, semicapacità, senza alcuna opzione intermedia, laddove la realtà  è assai più complessa e insofferente di precisi inquadramenti). 
 
L'istituto dell’amministrazione di sostegno, invece, si rivolge a coloro che risultano, anche temporaneamente, impossibilitati, per infermità o menomazioni fisiche o psichiche, a provvedere ai loro interessi; dunque, per sua natura, si pone in maniera flessibile nel coprire le necessità di protezione dell’interessato.  
A questo proposito, il giudice tutelare con decreto motivato dispone in merito agli atti che l’amministratore può e deve fare per conto dell’interessato.  
 
Per tutti gli altri atti non espressi nel decreto, l’amministrato rimane capace di agire. 
Nel nuovo provvedimento normativo importanza centrale riveste l’articolo 1 che recita: «La presente legge ha finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive di tutto o in partedi autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». Per­tanto si sottolinea che l’istituto dell’amministrazione di sostegno deve essere attuato cercando la «minore limitazione possibile della capacità di agire». 
 
Necessaria una adeguata tutela per i soggetti totalmente e definitivamente incapaci 
Vi sono soggetti però che devono essere completamente tutelati; pertanto – allo stato attuale – l’amministrazione di sostegno non appare, tra gli istituti di protezione a disposizione, quello più appropriato. 
 
Pronunce dei tribunali, peraltro, avvalorano la tesi secondo la quale per taluni casi sarebbe da preferire l’interdizione.  
Per esempio il Tribunale di Modena, Sezione II civile, il 15 novembre 2004 così sentenziava: «Oggi l’interdizione va adottata da parte del giudice solo “quando ciò è necessario per assicurare la adeguata protezione” dell’infermo di mente (articolo 414 del Codice civile, nel testo novellato dall’articolo 4, comma 2 della legge 6/2004)». Dunque, se l’interdizione è da utilizzare solo in maniera residuale, è anche vero che è indispensabile quando l’interessato necessita di adeguata protezione. 
 
Recentemente anche la Cassazione si è espressa in relazione all’ambito di attuazione dell’amministrazione di sostegno (Cassazione civile, Sezione I, sentenza 12 giugno 2006, n. 13584). Pur ammettendo che l’ambito di applicazione dell’istituto vada individuato «con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa», afferma che comunque «appartiene all’apprezzamento del giudice di merito la valutazione della conformità di tale misura alle su indicate esigenze, tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie». 
 
Occorre ricordare che vi sono tutta una serie di categorie di persone, tra i quali i soggetti con handicap intellettivo in situazione di gravità, i malati di Alzheimer o di altra demenza in stato avanzato della patologia, le persone in coma irreversibile o colpite da ictus e da altre malattie completamente invalidanti, ecc., che sono «totalmente e definitivamente non solo incapaci di curare i propri interessi ma nemmeno in grado di provvedere alle proprie esigenze fondamentali di vita: mangiare, bere, lavarsi, vestirsi, svestirsi, adempiere da soli alle funzioni corporali».  
 
Pertanto «si tratta di persone che necessitano di essere curate e/o assistite per 24 ore al giorno fino al momento della loro morte». 
 
In sostanza «per questi soggetti in particolare è inaccettabile che rimangano privi di tutela giuridica, talora in balia di approfittatori, che a volte possono anche nascondersi nei congiunti e soprattutto nelle strutture di ricovero».  
Di fatto essi hanno bisogno necessariamente di una protezione completa. E per tale esigenza, l’istituto dell’interdizione ad oggi appare il più appropriato. 
 
«Occorre dunque preferire l’utilizzo dell’istituto dell’interdizione in tutti quei casi in cui la malattia incida in maniera pesante e non temporanea nelle capacità intellettive del soggetto». 
Purtroppo, senza tener conto di tali reali esigenze, con l’entrata in vigore della legge n. 6 del 2004 dell’amministrazione di sostegno, il titolo dell’articolo 414 del Codice civile è stato modificato e al posto di «persone che devono essere interdette» è stato invece inserito «persone che possono essere interdette». Si ritiene, invece, che con la possibilità attuale di ricorrere all’amministrazione di sostegno, sarebbe dovuta rimanere inalterata (anzi avrebbe dovuto ottenere maggior efficacia) l’obbligatorietà della tutela attraverso l’interdizione per quei casi sopra citati di totale e permanente incapacità di agire. 
 
La connotazione negativa dell’interdizione 
L’Associazione tutori volontari non scorda, peraltro, la connotazione tradizionalmente negativa che l’interdizione ha raccolto nel corso degli anni, ma ritiene che tale attribuzione non appaia di fatto realistica.  
Tale istituto non rappresenta uno stigma o la “morte civile” di chi ne è colpito, come in genere si afferma. 
 
Occorre ammettere che il problema non è rappresentato dall’interdizione in se stessa, ma dall’esito della patologia o dell’handicap a monte già presente nel soggetto.  
L’interdizione, per i gravi casi in questione, prevede solo una certificazione a tutela di una situazione che realmente è già di incapacità totale. Pertanto l’interdizione non è e non deve essere vista come una azione “contro” l’interessato bensì “a favore”.  
 
Come ricordato, occorre sfatare una falsa informazione che spesso preclude ai familiari l’inoltro della domanda di interdizione, e cioè che l’interdizione sia un’azione fatta “contro” il proprio congiunto, se non addirittura che si debba considerarla come la sua morte civile. Non è affatto così. Altra cosa da chiarire è che, in mancanza del provvedimento di interdizione, l’incapace è a tutti gli effetti una persona normale e quindi con tutti gli obblighi, i doveri e le responsabilità proprie di qualsiasi cittadino, mentre, purtroppo, le sue condizioni sono ben diverse. 
 
Forse alla difficoltà di approccio delle famiglie interessate verso questo vecchio e rigido ma, per certi aspetti, fondamentale istituto di tutela contribuisce il fatto che la prassi generalmente consigliata per avviare l’istanza di interdizione è quella di rivolgersi ad un legale con una spesa che può aggirarsi anche fino a 5 mila euro.  
Altresì, contribuisce allo stigma negativo il fatto che, sino al momento dell’entrata in vigore della legge sull’amministratore di sostegno, l’utilizzo dell’interdizione era esteso anche per quei soggetti con residue capacità di agire (più in particolare per i malati psichiatrici) ove pertanto, azzerando completamente dette capacità, in tali casi operava effettivamente con nocumento. 
 
Attualmente però, potendo disporre dell’amministrazione di sostegno, l’interdizione deve essere utilizzata come strumento per i soli casi di totale incapacità a provvedere alle proprie esigenze fondamentali di vita e ai propri interessi, senza la necessità di doverla tirare forzatamente “per la giacchetta” adattandola verso quei soggetti ove le loro condizioni non sono così gravi da richiedere di essere tutelati in maniera così completa. 
 
Che cosa preservare dell’interdizione 
La tutela, a differenza dell’amministrazione di sostegno, appare uno strumento di protezione più completo, e pertanto più indicato, a proteggere i soggetti totalmente e definitivamente incapaci. 
E occorre ricordare che una differenza sostanziale tra i due istituti riguarda un maggior grado di protezione insito nell’istituto dell’interdizione. 
 
Per esempio, la procedura per decretare l’interdizione prevede maggiori tutele per l’interessato dovendo sottostare al vaglio del tribunale (giudice e pubblico ministero) prima di passare all’interessamento del giudice tutelare. 
Con l’amministrazione di sostegno invece è sempre il giudice tutelare che investito del caso (e con enormi poteri) ha facoltà sia in merito alla nomina sia in merito a tutte le decisioni susseguenti che potrà decretare.  
 
Il giudice tutelare risulta competente pertanto sia per la prima fase relativa alla valutazione della ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di ammissione all’amministrazione di sostegno, sia per la fase successiva alla nomina dell’amministratore di sostegno. 
 
Altra differenza tra i due istituti di protezione riguarda la nomina del protutore, prevista con l’interdizione unitamente alla nomina del tutore. Tale figura in questo momento non è prevista dalla normativa che ha introdotto l’amministrazione di sostegno. Sarebbe utile, pertanto, prevedere la figura obbligatoria di un amministratore di sostegno “aggiunto”, con finalità analoghe a quelle del protutore per l’interdizione.  
 
Si tratterebbe pertanto di un soggetto che oltre ad avere funzioni di “riserva” (nel senso di amministratore di scorta), potrebbe svolgere una attività di “riprova” sull’operato dell’amministratore di sostegno e di rappresentanza nei casi in cui l’interesse dell’amministrato si trovi in opposizione con quello dell’amministratore. 
 
Uffici di pubblica tutela 
Con l’occasione dell’abrogazione degli istituti dell’interdizione e inabilitazione sarebbe necessario, altresì, porre in essere idonee norme al fine di evitare che le contrapposte funzioni di controllore e controllato siano assunte dallo stesso ente (Comune, Asl, ecc.) o addirittura dal medesimo istituto di ricovero ai quali le leggi vigenti attribuiscono le funzioni di assistenza o cura. 
 
A tal fine occorrerebbe apportare modifiche ai relativi articoli del Codice civile, estendendo quanto previsto per l’amministrazione di sostegno. 
Anche a questo scopo risulterebbe assai opportuna la creazione di Uffici di pubblica tutela da parte delle Province – uffici peraltro accennati dalla legge 328/2000 (articolo 8, comma 4) – previa la sottrazione di qualsiasi funzione gestionale di tipo assistenziale alle stesse Province. 
 
A detti uffici dovrebbero essere attribuiti in particolare i seguenti compiti: 
a) esercizio delle funzioni di tutela, curatela, amministratore di sostegno, amministratore provvisorio assegnate dall’autorità giudiziaria; 
b) prestazioni della consulenza sulle funzioni di cui alla precedente lettera a) alle persone ed alle organizzazioni che ne facciano richiesta; 
c) promozione del volontariato singolo od organizzato al fine di incentivare la personalizzazione delle funzioni di cui alla precedente lettera a). 
 
In tal modo verrebbe eliminata alla radice la contraddizione dell’ente (Comune, Asl) allo stesso tempo controllore e controllato. 
 
Altresì, l’istituzione degli Uffici di pubblica tutela consentirebbe ai giudici tutelari di operare più efficacemente ai sensi del 2° comma dell’art. 344 del Codice civile  (si vedano per esempio le funzioni assegnate e generalmente non svolte in materia di individuazione dei minori da segnalare ai Tribunali per i minorenni per la loro adattabilità, i compiti di vigilanza degli istituti in cui sono ricoverati i fanciulli, le verifiche ed i controlli delle situazioni maggiormente a rischio, ecc.). 
 
Vorrei ricordare, peraltro, che la Regione Piemonte con la legge regionale n. 1/2004 “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali” ha previsto all’art. 5, comma 2, lettera J, l’Ufficio provinciale di pubblica tutela al fine di supportare i soggetti ai quali e’ conferito dall’autorità giudiziaria l’esercizio delle funzioni di tutore.  
 
Purtroppo sarebbe stato assai più utile costituire un ufficio che non si limitasse a svolgere compiti "di supporto a favore dei soggetti ai quali è conferito dall’autorità l’esercizio delle funzioni di tutore", ma che assumesse direttamente – in accordo con i giudici tutelari – la titolarità dell’esercizio di tali funzioni  
(quantomeno in quelle situazioni nelle quali è evidente l’oggettiva impossibilità di garantire una efficace rappresentanza delle persone interdette). 
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A maggior conferma pubblico, in calce, una mail della Dott.ssa Francesca Lavacca della Valle e il Suo allegato. 
Credo che, quest'altra qualificata voce, dia e possa dare corpo al problema succitato. 
Un caso umano da non sottacere, assolutamente. 
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MITT: Francesca della Valle 
 
Gent.le Direttore, 
le allego la mia “lettera aperta” dopo il silenzio stampa dettato dalle menzogne, costruite, sulla nostra vicenda. 
 
Da giornalista ritengo sia il momento che si sappia la verità 
Con stima 
Francesca della Valle 
 
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All. 
SE QUESTO NON E’… 
 
Mark Twain, il primo vero scrittore statunitense sosteneva che, soffiare sul fuoco della calunnia non fosse cosa saggia, a meno che tenendolo vivo, non se ne traggano grossi vantaggi 
 
È proprio da qui che voglio partire… e sì, abbiamo assistito, da novembre 2021 ad una gogna mediatica nella quale, qualcuno ha avuto vantaggi nel “massacrare”, nel vero senso del termine, una storia d’amore, fra l’ultimo dei grandi divi – Lando Buzzanca – e una donna e professionista per bene – Francesca Lavacca in arte Francesca della Valle. 
Il bieco gioco di parole Francesca Lavacca della Valle (una nuova razza bovina?), è stato usato per sporcare tutto ciò che la sottoscritta avesse toccato nel corso della propria vita e irridere gli omonimi. 
 
Ma i signori in questione sono informati che gli pseudonimi nel mondo dell’arte, del giornalismo e della cultura abbondano? 
Per tranquillizzarvi sottolineo che, il mio nome d’arte è registrato alla SIAE e pago regolarmente canone annuale, come da mia ottima abitudine, anche come autrice (questo solo per accontentare i più raffinati). Mandate i vostri inviati per conferma cosi come potreste fare, stessa cosa, “altamente televisiva”, chiedendo come e perché decidemmo, con la mia agente, di fare questa scelta, così usuale nel mondo dello spettacolo.  
Vi informo, per i non addetti alla cultura ed informazione seria che, la sottoscritta docente di lettere e filosofia, nonché giornalista ha un curriculum di gavetta alle spalle di un certo valore.  
Non circuisco anziani!  
Si è detto che io abbia rapito Lando ad una improbabile autoeletta fidanzata, un ‘altra barzelletta! Poteva essere la sceneggiatura di un suo vecchio film. 
 
Per tutti i curiosi, prima di Lando è esistito nella mia vita un solo uomo che è venuto a mancare non per “vecchiezza” – come qualcuno spererebbe. - ma per un problema cardiaco. Nessun anziano ha avuto mai il mio interesse, cosi come nessun giovane o meno giovane nel corso della mia vita. Soddisfatti? A qualcuno dei respinti non è andata giù, vedo! 
 
Ora mi chiedo: A chi è servito montare il teatrino della calunnia? Chi ha avuto vantaggi nel nascondere la verità? Proteggere Lando da me, significava metterlo in una RSA, invece che a casa sua?  Questo è amore?  
Nessuno ricorda le forti dichiarazioni pubbliche di Lando Buzzanca, prima che fosse sequestrato dalla legge 6/04?  
Legge sull’amministrazione di sostegno, per la quale c’è una interrogazione parlamentare dell’On Barelli per l’abrogazione che, con il mio gruppo, appoggiamo fortemente. 
Forse non è noto ma, questo mio appoggio, fu l’argomento per cui fui interpellata. 
Argomento che non fu mai citato. Questa ormai è cosa nota.  
 
Cara collega del gossip, scrivere che Lando abbia rilasciato dichiarazioni a novembre 2021 sul mio conto è una emerita bufala. Lando è irraggiungibile dal 21 aprile. La dichiarazione 
che ci fosse un procedimento a mio carico da parte di un sedicente mio “ex” anziano, è un’ulteriore bufala.  
 
Per non tralasciare nulla, vorrei chiarire che, l’iter per le nozze è stato dichiarato legittimo dalla Procura della Repubblica di Roma. 
E, a chi affermava che non fosse necessario sposare Lando per assisterlo perché “ci avrebbero pensato altri” chiedo: “come mai Lando Buzzanca, come temevo accadesse, oggi è in una RSA, contro la sua volontà?”. 
Per poterlo vedere e stargli vicino come entrambi vorremmo, per la legge italiana, proprio perché non sono sua moglie, sono costretta a mettermi in coda, a discrezione dell’amministratore di sostegno (ADS).  
L’ADS, in funzione del suo incarico, avrebbe dovuto gestire, solo ed esclusivamente, le finanze di Lando e il suo benessere psicofisico e non la sua volontà e la nostra vita. 
 
Chi ha promosso questa azione coercitiva? 
Mi congratulo con la regia responsabile di quanto accaduto ma, nel nostro mestiere, ciò che si scrive e si dice deve essere documentato. 
I processi li fanno i magistrati, non i pomeriggi televisivi. 
 
Saltimbanchi in cerca di notorietà, spero vi sia giunto un riscontro tangibile, dalle vostre evoluzioni, altrimenti tutto è stato vano, o no? 
Inoltre come una afasia, si trasformi dall’oggi al domani in demenza senile, dovete spiegarmelo perché, se ciò è accaduto, sono stati usati mezzi impropri e qui, la legge non perdona. 
Intanto, sostenuta dal mio avvocato Giovanni Mastroianni, portiamo avanti una battaglia legale, senza esclusione di colpi. 
 
Il mio silenzio stampa è terminato … fatevi avanti!  
 
Dott.ssa Francesca della Valle 
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Grazie 
24 Febbraio  2022