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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Un regime “sempre” in crisi 
di Ninni Raimondi
 
Un regime “sempre” in crisi  
Prima parte 
 
 
Il concetto di “crisi della democrazia” non è nuovo.  
Al contrario, si può sostenere che la democrazia rappresentativa non abbia mai vissuto periodi privi di crisi, reali o presunte. Il che è un problema congenito, iscritto nel suo DNA di regime plurale, aperto e pertanto sempre discutibile e inevitabilmente vulnerabile, “precario” e divisivo nelle interpretazioni.  
 
Nel 1975, in un lavoro intitolato proprio The Crisis of Democracy, Crozier, Huntington e Watanuki arrivarono a sostenere che il futuro del regime democratico fosse in pericolo in tutto l’Occidente.  
In un articolo pubblicato su “The Economist” del 23 marzo 1974, Willy Brandt scrisse: “L’Europa Occidentale ha davanti a sé 20-30 anni di democrazia; naufragherà, priva di motore e di timone, nel mare aperto della dittatura”.  
 
Le ragioni della crisi degli anni ’70 del secolo scorso erano fondamentalmente di tre tipi: –– sfide di scenario (contextual challenges): minacce alla sicurezza dovute alla Guerra Fredda, crescita del prezzo del petrolio e crisi petrolifera, forti squilibri nell’economia internazionale; –– dinamiche sociali (social trends): crescita di movimenti populisti, élites intellettuali, mass media e altre forze in grado di minare la tenuta del regime democratico; –– caratteristiche intrinseche della democrazia (intrinsic characteristics): debolezze “strutturali” tipiche di un regime che necessita di legittimazione e consenso e di un alto rendimento politico per funzionare al meglio.  
 
“Queste sfide”, secondo Huntington, “stavano conducendo verso la delegittimazione delle autorità di governo, l’incremento delle domande politiche che generavano un sovraccarico di aspettative nei confronti delle scelte di policy, la disgregazione e lo sfaldamento dei partiti politici, e verso una crescita dei nazionalismi e dei conflitti tra le democrazie sulle questioni internazionali”. 
Pharr e Putnam, a distanza di anni, osservano che le previsioni pessimistiche degli anni ’70 sulla “aspettativa di vita” dei regimi democratici si siano rivelate del tutto errate: la “fine della Guerra Fredda ha sugellato il trionfo della democrazia […] che ha rafforzato tanto le sue istituzioni quanto i suoi valori fondativi, oggi più forti che mai”.  
 
Ma, aggiungono, “ironia della sorte, nel momento in cui le democrazie liberali hanno sconfitto tutti i nemici nel confronto ideologico e politico, in molti oggi ritengono che le nostre istituzioni politiche siano traballanti, piuttosto che fiorenti. La questione più importante […] non è se la democrazia sopravvivrà o meno, bensì come leader e istituzioni democratici riusciranno a soddisfare le aspettative e i bisogni dei cittadini”. 
In altri termini, “senza che della democrazia siano apertamente contestati i presupposti logici e valoriali, lo sono spesso le regole e le istituzioni – il che equivale a dire che, anche se sono presenti alcuni dei prerequisiti di una democrazia, questa non decolla –; ovvero, le sue prestazioni sono deludenti per un numero sempre maggiore di persone”.  
Pur essendo uscita indenne dalle sfide molteplici e rilevanti che si presentavano nella seconda metà del ’900, la democrazia continua a dover fronteggiare una minaccia costante: un drastico calo di consenso e fiducia verso attori politici, autorità e istituzioni.  
 
Se ciò basti a mettere in discussione anche la tenuta dei regimi è una questione aperta, anche se per ora questo pericolo non sembra profilarsi. Certo è che abbiamo buone ragioni per preoccuparci, se non della sopravvivenza, quanto meno del rendimento, ovvero della qualità delle nostre democrazie.  
La crisi contemporanea della democrazia 19 Si è sempre sostenuto che nessun regime, democratico o meno, sia in grado di reggere di fronte a un imponente e costante calo della legittimazione popolare.  
 
 
Prima o poi finisce per implodere.  
Evidentemente, ciò che sta avvenendo ormai da decenni nelle democrazie consolidate è che la delegittimazione sia in costante ascesa verso l’establishment (non solo, ma prevalentemente politico) e verso le istituzioni rappresentative, ma non verso il regime.  
Sembra cioè che la cittadinanza democratica abbia introiettato e fatta propria la celebre frase di Winston Churchill secondo cui “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre”.  
Non siamo soddisfatti, ma non vediamo alternative.  
 
Almeno per ora. Peter Mair, nel suo recente Governare il vuoto, sostiene che una delle ipotesi per uscire da questa impasse è di “ridefinire la democrazia in termini che permettano di adattarla al declino dell’interesse e della partecipazione popolare. Lungi dall’essere una risposta al distacco che ne è derivato”, prosegue Mair, “la preoccupazione attuale legata al rinnovamento della democrazia è quella di riuscire a trovare un compromesso. […]  In definitiva, si tratta di una proiezione di un tipo di democrazia senza il demos al suo centro”.  
 
Anche Mair, però, si pone la domanda cruciale: perché questa crisi di sistema, “questo particolare cambiamento ha iniziato a manifestarsi a meno di dieci anni dalla tanto esaltata “vittoria della democrazia” e in un momento in cui, per la prima volta nella storia, la democrazia era acclamata come “l’unica opzione possibile”?  
Perché, nel momento in cui la democrazia sembrava trionfare, è emerso un elemento a limitarne la portata?”. 
La risposta che si dà è legata fondamentalmente alla crisi dei partiti. Quella che sosterrò io in questo lavoro è più sistemica. Cerca cioè di andare a monte anche della crisi dei partiti. Per me, quest’ultima è ancora uno dei sintomi, non una variabile esplicativa dei problemi contemporanei che affliggono le democrazie occidentali. Le variabili chiave sono più profonde, di natura socio-culturale e antropologica.  
Hanno a che fare coi mutamenti del popolo, con noi tutti.  
 
 
Sintomi vecchi e nuovi del malessere democratico 
Perché dobbiamo preoccuparci In Disaffected Democracies, Pharr e Putnam sottolineano come tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento i trend di fiducia nei confronti della classe politica, dei partiti e dei parlamenti segnino mediamente un calo in quasi tutte le democrazie prese in esame.  
 
Per l’esattezza, la fiducia nei politici diminuisce in 12 democrazie su 13, quella nei partiti in 17 su 19 e quella nei parlamenti in 11 su 141.  
A queste tendenze, derivanti dall’analisi di dati aggiornati intorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso e tuttavia confermate negli anni seguenti, occorre aggiungerne altre, anch’esse già in atto nei decenni passati ma ulteriormente rafforzate da alcune dinamiche socio-politiche recenti. Il primo dato da tenere presente è relativo ai tassi di partecipazione elettorale. A fronte di un chiaro incremento del numero di regimi democratici e di elezioni libere, a partire dal secondo dopoguerra, il trend di partecipazione elettorale è in costante diminuzione2. Se questo dato costituisca di per sé un problema è una questione ampiamente dibattuta da decenni.  
 
C’è chi sostiene che dovremmo piuttosto meravigliarci degli alti tassi di partecipazione – tipici degli anni ’60 e ’70 del Novecento – perché sarebbero sintomo di una democrazia ipermobilitata e dunque di una “febbre politica” rivelatrice di uno stato di salute precario del regime. Tuttavia, la tendenza globale è chiara: tutti i paesi democratici vivono da tempo un decremento della partecipazione elettorale. Se il trend non si inverte, o quanto meno non si ferma, la democrazia rischia di diventare una "oligocrazia" (poco) rappresentativa. Il che non sembra in ogni caso un buon approdo finale.  
 
Anche se eliminiamo dai dati rappresentati, quelli relativi alle democrazie di più recente formazione e ci concentriamo su 19 democrazie consolidate europee\ la tendenza non cambia.  
Non si tratta, dunque, di un problema legato alla genesi e alla longevità dei regimi, quanto di una tendenza costante, che prescinde dal consolidamento o meno delle istituzioni e dei valori democratici.  
Ovviamente ci sono casi isolati che fanno eccezione\ resta tuttavia evidente un trend consolidato e diffuso.  
 
Se nei decenni che vanno dalla metà degli anni '40 fino alla metà degli anni '80 del secolo scorso, la partecipazione elettorale media è stata stabile tra 1'83 e 1'85 per cento, negli anni '90 è scesa sotto 1'80 per cento, per arrivare al 74 per cento dell'ultimo quinquennio. 
 
Anche questo sintomo, di per sé, è ambivalente nell'interpretazione.  
Da un lato infatti evidenzia un elettorato più li­bero di scegliere, meno ancorato a logiche e ad appartenenze forzate per ragioni ideologiche, sociali, culturali, familiari e così via.  
Si potrebbe considerare, al pari del calo della partecipazione elettorale, un indicatore di emancipazione del singolo, un prodotto dell'incessante processo di indi­vidualizzazione, tipico della modernità. Tuttavia, a fronte di questa lettura più positiva, incentrata sulla libera scelta individuale (cioè scegliere liberamente se votare e per chi votare), ve ne può essere un'altra, meno positiva, fondata sul disorientamento politico degli elettori.  
 
Scrive Mair, più “la partecipazione elettorale diminuisce e più cresce il livello di indifferenza, più è lecito aspettarsi che anche questi cittadini renderanno il proprio coinvolgimento più instabile, più in­certo e di conseguenza esprimeranno le proprie preferenze politiche in maniera più casuale.  
[ ... ] Le scelte inizieranno a rivelarsi più incostanti e più suscettibili all’influenza di fattori nel breve periodo. […]  
 
L’indifferenza va spesso di pari passo con l’inconsistenza 
L’incremento della volatilità elettorale, in altri termini, indicherebbe un elettorato meno propenso a far prevalere logiche di appartenenza e più orientato verso il cosiddetto “voto di opinione”, ossia quel comportamento elettorale poco influenzato da variabili di lungo periodo (ideologie e culture politiche, blocchi sociali, voto territoriale, tradizioni familiari) e più condizionato da fattori di breve (programmi elettorali, credibilità e “immagine” di candidati e leader, variabili di contesto).  
In uno scenario competitivo deideologizzato, questo passaggio dal voto di appartenenza (o comunque “fedele”) al voto di opinione dovrebbe costituire una logica conseguenza. Tuttavia, affinché questa conseguenza sia anche salutare per la democrazia occorre che siano soddisfatti alcuni prerequisiti, in particolare: una cittadinanza informata e una classe dirigente che sia davvero dirigente. La tesi di questo lavoro è che la cittadinanza sia oggi ben lungi dall’essere informata, il che più che a un voto di opinione porta sovente a un “voto di emozione” e che la classe dirigente sembri piuttosto essere diretta dagli umori e dalla pancia dell’elettorato, ovvero sia piuttosto, mi si permetta la formula un po’ sarcastica, una “classe digerente”.  
 
Un quarto sintomo da considerare è quello relativo al calo dell’indice di bipartitismo 
Pochissime democrazie sono state realmente bipartitiche e sovente la competi-zione a due partiti è stata facilitata dalla scelta di sistemi elettorali che hanno forzato gli esiti trasformando un pluripartitismo in termini di voti in un bipartitismo in termini di seggi. Il caso del Regno Unito è emblematico in tal senso, con le “terze liste” da sempre sottorappresentate alla Camera dei Comuni a causa delle dinamiche di voto scaturire dal sistema maggioritario a turno unico (plurality system).  
 
In ogni caso, i due partiti maggiori delle 19 democrazie europee prese in esame hanno  costantemente perso quote di elettori, dal 1945 a oggi.  
 
 
Segue 
 
12 Luglio  2022