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Fondato e diretto, nel 2003, da Ninni Raimondi
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Taiwan, l’isola del sovranismo politico 
di Ninni Raimondi
 
Taiwan, l’isola del sovranismo politico 
 
 
Qiao Liang, il più grande stratega cinese, un mese fa diceva che il nazionalismo indipendentista taiwanese era il nemico principale del marxismo cinese, ben più degli Usa, per poi correggere il tiro negli ultimi giorni. La recente affermazione del Partito democratico del progresso (Ppd), la ripresa dell’insurrezione di Hong Kong e la conclamata strategia di dominio globale della Cina comunista pongono Taiwan al centro della contesa globale. Taiwan è la Nazione che ha meglio fronteggiato nel mondo la pandemia da coronavirus, con soli sei decessi. 
Quando il generalissimo Chiang Kai-shek, sconfitto nel ‘49 nella guerra civile, rifondò lo Stato della Cina nazionalista o Repubblica di Cina a Taiwan (chiamata Formosa dai portoghesi), l’isola era un deserto di rovine e macerie. Realizzando una riforma agraria da manuale e applicando un modello di economia sociale mista, via di mezzo tra statalismo e liberismo, che sintetizzava con flessibilità i Tre Principi del Popolo postulati dal rivoluzionario nazionalista Sun Yat Sen ed il modello neo-corporativo giapponese post-1945, il generalissimo manifestò tutta la grandezza di uomo di Stato, protagonista di un miracolo sociale e comunitario solido che è tuttora il segreto politico dell’isola. 
 
La Cina nazionalista di Taiwan ha sempre attuato la prassi della mobilitazione militare interna di esplicita derivazione italiana e l’attuale esercito, assai apprezzato da russi e americani, è in continuità diretta con l’esercito nazionalrivoluzionario cinese. L’imperialismo rosso di Pechino, che vuole “liberare Taiwan dalla peste fascista”, è stato sempre sconfitto. Nelle continue crisi dello Stretto di Formosa degli anni ’50, i nazionalisti “bianchi” tennero eroicamente testa all’aggressore maoista, la guarnigione nell’isola di Quemoy resisteva, quasi disarmata, indomita a 18 bombardamenti “rossi” non cedendo la linea. Quando Chiang dette il segnale della riconquista del continente arrivarono prontamente Washington e Mosca, ancora una volta, in difesa di Mao. Il generalissimo aveva una strategia politica che contemplava da un lato la riunificazione cinese, dall’altro la vittoria dell’ideologia nazionale e conservatrice della Grande Cina han e confuciana sul marxismo razzista alla cinese (che ha sempre perseguitato le varie minoranze). A tal fine egli ispirò alla fine degli anni ’50 la nascita della Lega anti-comunista mondiale per radicalizzare, e far esplodere, le contraddizioni dell’ideologia globale dominante: l’antifascismo. 
 
Al di là delle solita propaganda di marxismo e americanismo liberal, altra faccia della medesima medaglia del complottismo reazionario, l’élite nazionalrivoluzionaria di Taipei bene conosceva la drammatica spaccatura interna alle correnti dominanti economiche politiche Usa. La sinistra liberal statunitense, il blocco egemone dello Stato profondo, considerava un pericolo maggiore la Spagna franchista, i cui rapporti strategici instaurati dall’amministrazione Nixon non saranno a quest’ultimo perdonati dal Deep State, o la Cina libera o il Vietnam nazionale e sociale di Ngo Dinh Diem, ucciso nel ‘63 dalla Cia in piena guerra vietnamita, piuttosto che regimi o movimenti terroristi marxisti con cui la radice progressista e globalista era identica. 
 
Un recente studio di Simini, che si sofferma sull’azione dell’orchestra rossa negli Stati Uniti (eclatanti i casi Rosenberg e Hiss o la linea promarxista Cia di John McCone) andrebbe al riguardo analizzato analizzato, così come le conclusioni teoriche del profondo storico Ernst Nolte sulla convergenza novecentesca dell’ “Eterna sinistra anticristiana” con lo Stato profondo liberal-progressista nel contesto della guerra civile internazionale tra fascismo resistente e comunismo globalista-materialista, non vanno di certo dogmaticamente accettate, ma nemmeno si posson rifiutare in modo aprioristico. 
 
Dal 1972, in seguito alla famosa “diplomazia del ping pong” patrocinata dalla longa manus del Deep State Kissinger, per la comunità internazionale Cina equivarrà a Pechino rossa e Taiwan a “stato canaglia” privo di sovranità. Come gli Stati Uniti, nel corso della guerra civile cinese 1945-1949, con il generale George Marshall, assistettero con dubbia impotenza alla vittoria delle forze comuniste di Mao (quando avevano riportato il Giappone alla “preistoria” con il terrore nucleare appena 4 anni prima), così dagli anni ’70 in avanti optarono per una strategia di totale collaborazione con la Cina maoista. 
La situazione odierna è ancora piena zeppa di equivoci. Per Pechino, in omaggio al principio “One Country, two systems”, Taiwan è sua. L’isola, che è arrivata a quasi 24 milioni di abitanti, sarà infatti il definitivo terminale di confronto o conflitto tra Cina ed Usa. Se entro il 2049, a cento anni esatti dalla fondazione della Repubblica Popolare, Taipei entrerà a far parte della Cina continentale, la vittoria del globalismo tecnocratico dell’elite rossa, per la gioia del neocoloniale partito cinese Ue (Merkel-automotive), sarà totale. In caso contrario, la dinastia rossa di Pechino avrà fallito l’obiettivo della supremazia globale e vi sarà spazio per differenzialismo multipolarista e universalista. 
 
La notizia che la Taiwan semiconductor manufacturing (leader mondiale) aprirà una azienda in Arizona, con il divieto di cedere i suoi semiconduttori a Pechino, è di gran rilievo, nella strategia trumpiana di attacco a Huawei con il suo 5G. Il Fronte Pan-Verde di Su Tseng-chang, di cui fa parte il Ppd di Tsai Ing-wen, presidente nazionalista taiwanese, è quello che raccoglie l’eredità dei Tre Principi del Popolo: democrazia sovranista, nazionalismo, giustizia sociale. Il Fronte pan-Azzurro, che ha al suo interno il vecchio Kuomintang (Partito Nazionalista Cinese) del generalissimo, si è invece spaccato sulla questione Taipei-Pechino (“Un paese, due sistemi”), che è ora dirimente. Il precedente presidente pan-azzurro, Ma Ying-jeou, si fece notare per lo storico incontro con Xi Jinping a Singapore, nel novembre 2015, ripudiato dal fronte taiwanese anticomunista.  
 
L’insurrezione di Hong Kong nasce non a caso sul modello dell’agitazione sovranista di Taiwan Strait della primavera 2014, “Movimento 18 marzo” o “Movimento dei Girasoli”, insurrezione sociale che si caratterizzava , secondo i promotori, come “Rivolta Anticomunista” contro ogni ipotesi soft verso Pechino. Così si spiega il recente appoggio di Tsai Ing-wen verso i rivoltosi di Hong Kong. Taiwan sa che vi sono più fazioni all’interno della rivolta e punta a far sì che la fazione nazionale insurrezionalista, la cui parola d’ordine è “non sono statunitense né un comunista cinese, sono un patriota di Hong Kong”, possa conquistare la supremazia politica. Il testamento finale di Chang Kai Shek (“Miei Camerati! Non siate pigri e indolenti! Voi dovete marciare verso la Rivoluzione Nazionale corporativa  sino alla vittoria finale contro il marxismo!”) è quindi più vivo che mai: sovranismo antieconomicista e democrazia organica antiglobalista. Per questo Taiwan, oltre le modeste dimensioni, si ritrova al centro della contesa mondiale. 
 
Taiwan non è l’Ucraina: è molto di più 
Con l’Est Europa in fiamme, si sono riaccesi i riflettori su Formosa. Sfruttando la situazione, come dicono alcuni, il Dragone tenterà di riprendersi l’isola? Il grande gioco è appena cominciato 
La Repubblica di Cina non è un’isola. Stato insulare de facto, l’anello sfuggito al Dragone rosso è formato in realtà da Taiwan – conosciuta altrimenti con il nome neolatino, dal sapor coloniale, di Formosa – e da tre arcipelaghi: Penghu, Kinmen e Matsu. Costellazione marittima, mare trapunto di scogli e stretti strategici, di cui Taiwan non è altro che la porzione di terraferma principale. 
 
Precisazioni irrilevanti, si dirà, utili per vezzi da cartografi improvvisati. Eppure fondamentali per chiunque non voglia limitarsi a leggere il mondo senza tentare di codificarlo, prevenendone i sommovimenti e dunque anticipando le mosse di qualsivoglia avversario, vero o presunto che sia. Fatta questa necessaria premessa, per facilitare la comprensione del testo, da qui in avanti continueremo a chiamare «Taiwan» l’intera Repubblica di Cina. 
 
Taiwan tra Cina e Giappone 
Come noto, il governo di Pechino sostiene di detenere diritti sovrani e amministrativi su Taiwan, considerandola la ventitreesima provincia della Repubblica popolare cinese. Questione spinosa, perché se è vero che Formosa finì sotto il controllo dell’impero cinese già nel XVII secolo, negli ultimi 120 anni è stata governata dalla Cina soltanto dal 1945 al 1949. D’altra parte, fino a poco tempo fa lo stesso governo di Taipei rivendicava di avere giurisdizione anche sulla Cina continentale, dominio perduto del generalissimo Chiang Kai-shek, a lungo coccolato e infine abbandonato da Washington. Primizie dell’ormai consolidata foreign policy a stelle e strisce. 
 
L’identità taiwanese è però assai complessa e tuttora in fieri. Attualmente gli Han, gruppo etnico dominante in Cina, costituiscono circa il 95% della popolazione di Taiwan. Eppure, a partire dagli anni Novanta, a Taipei iniziarono a diffondersi studi appositi per dimostrare che la gran parte dei cittadini ha geni austronesiani, dunque autoctoni. Fino al 1992 soltanto il 17% della popolazione si dichiarava taiwanese; oggi i sondaggi ci dicono che la percezione è completamente ribaltata, con il 90% degli abitanti che afferma di sentirsi taiwanese e soltanto il 27% si considera sia taiwanese che cinese. A cosa è dovuto questo cambio ontologico radicale? Essenzialmente al rigetto della sinizzazione, soprattutto nelle nuove generazioni, che hanno iniziato a rispolverare un passato aborigeno e al contempo coloniale. Una sorta di doppio binario, se pensiamo che il 60% della popolazione ritiene il Giappone il miglior Paese del mondo. 
 
Rileggendo attentamente la storia di Taiwan, non c’è da stupirsi, se è vero come è vero che migliaia di nativi di Taiwan si arruolarono come volontari nel Corpo Takasago (nome nipponico di Formosa). Quasi tutti furono fedeli fino all’ultimo al Sol Levante, a tal punto che centinaia di caduti austronesiani sono considerati a Tokyo dei kami, spiriti nobili venerati al santuario shintoista Yasukuni, là dove vegliano le anime dei caduti in battaglia servendo l’imperatore. A titolo esemplificativo, il taiwanese Teruo Nakamura (in lingua aborigena Attun Palalin) fu l’ultimo soldato dell’esercito giapponese ad arrendersi. Correva l’anno 1974, erano passati vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale quando fu ritrovato vivo – e ancora pronto a combattere – sull’isola di Morotai. Più di recente, nel 2011, un album emblematico della band metal Chtonic impazzò a Taipei. Si intitola Takasago army e cerca di esplorare l’identità taiwanese, tra spirito aborigeno e nipponico. Oggi, nei costumi, nello stile di vita, nel pensiero, Taiwan più che una piccola Cina sembra un piccolo Giappone moderno. 
 
La guerra che già c’è 
Poco setacciata dai media europei, a cui a lungo è sembrata faccenda tutta americana, con l’inizio della guerra in Ucraina la percezione di Taiwan è mutata d’un tratto, con molti, forse troppi, a puntare il cannocchiale sull’Indo-Pacifico.  
14 Luglio  2022